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di Iuri Maria Prado

L’Unità, 10 agosto 2023

Al Guardasigilli non si può rinfacciare la scelta di militare in una formazione parlamentare ed esecutiva anti-liberale, interprete di una giustizia classista, retrograda e poliziesca.

Sarebbe ingeneroso attribuire alla responsabilità del Guardasigilli, Carlo Nordio, l’organizzazione dell’orgia forcaiola che via via è venuta a istituzionalizzarsi nei provvedimenti della maggioranza in materia di giustizia. Ingeneroso sarebbe fare il conto delle pernacchie e degli sberloni con cui l’azione di governo ha dato riscontro ai vagheggiamenti da convegno e da salotto di quel liberale a parole. Né gli si può rinfacciare la scelta, dopotutto legittima, di militare in una formazione parlamentare ed esecutiva anti-liberale, interprete di una giustizia classista, retrograda, esclusivamente afflittiva, poliziesca.

È la tradizione del liberalismo italiano: disinibito in cenacolo e recessivo in auto blu ministeriale; Beccaria sul comodino e pena di morte in emergenza. Ma dire che non è colpa esclusiva di Nordio, responsabile semmai di concorso interno all’associazione carcerista di centrodestra, serve soprattutto a tenere dritta la barra del giudizio contro una cultura e una prassi dell’amministrazione della giustizia che da quelle parti è ampiamente collegiale: ed è messa tutt’al più in bella copia dal giurista veneziano, ma nella sostanza sarebbe uguale senza di lui.

L’estensione dello spionaggio giudiziario, tramite intercettazione, su ulteriori ettari della legislazione penale, con cimici e trojan posti a presidiare le zone contigue alla galassia antimafia sino a trasformarla nel buco nero che ingurgita tutto, dal traffico di rifiuti al sequestro di persona, non è meglio di uno sputo in faccia al pluridecennale tentativo garantisca di limitare il ricorso a quei mezzi invasivi e di sistematica violazione dei diritti individuali.

La previsione di “condizioni meno stringenti per l’autorizzazione e la proroga delle intercettazioni stesse”, trasfusa nei manifesti e nei post social della presidente del Consiglio che rivendica di aver in tal modo “difeso la legalità antimafia”, non è altro che una delega supplementare al potere sconfinato dell’accusa pubblica e al dovere di compiacenza del giudice nell’assoggettarvisi.

“Ora i servitori dello Stato”, dice Giorgia Meloni, “sanno di avere un governo che sta dalla loro parte”. Vuol dire dalla parte di chi reclama più reati, più carcere, più rastrellamenti giudiziari, più cittadini esposti all’occhio inquirente del potere pubblico, più libertà tentacolare della piovra giudiziaria.

Gli slogan come quello, messi insieme a margine del Consiglio dei ministri dell’altra sera, fieri nella riaffermazione delle virtù del carcere duro e dei rimedi ostativi, altra faccia della moneta governativa che enuncia le ragioni del proprio sdegno per l’imputazione di un sottosegretario e per l’affronto indiziario ai danni delle gentildonne ministeriali, sono i facili e osceni esperimenti con cui questo esecutivo si fa ventriloquo della piazza che chiede le solite cose di piazza, sicurezza e onestà e tutela delle vittime: cioè le cose perseguite (e non ottenute) con gli strumenti che da decenni fanno e assolvono l’ingiustizia italiana.

Disastrata com’è l’amministrazione della giustizia, e ormai in irrimediabile derelizione lo Stato di diritto in questo Paese, magari qualcuno poteva pensare che fosse impossibile fare peggio. Sbagliava.