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di Ornella Favero

Il Riformista, 29 giugno 2024

“Tra gli strumenti che ci ha dato la Giustizia riparativa c’è la capacità di ascoltare la sofferenza che abbiamo inflitto”, racconti di un detenuto e di una vittima. “Omicidio di Carol Maltesi, i giudici dicono sì al reinserimento del killer con la giustizia riparativa”: è, questo, un titolo “esemplare” di quello che fa tanta informazione, prende un reato grave commesso di recente, una ragazza fatta a pezzi, e fa credere al lettore che, grazie alla Giustizia riparativa, l’assassino se la caverà con una pena da niente. Non è così, questa “strana” giustizia può però dare gli strumenti per lavorare sul tema dell’assunzione di responsabilità.

A Padova, nella redazione di Ristretti Orizzonti, c’è un’esperienza consolidata che riesce, con questi strumenti, l’ascolto, la narrazione di sé, lo scavare dentro la propria vita, la mediazione anche, a trasformare la pena rabbiosa in una pena riflessiva. Lo raccontano una persona detenuta, Marino, e Silvia Giralucci, vittima di un omicidio che l’ha privata del padre.

Marino O.: Ricordo la prima volta in cui abbiamo ascoltato il racconto delle vittime

Quando cominciarono ad entrare in carcere le scolaresche nel Progetto di confronto tra le scuole e il carcere che facciamo come Ristretti Orizzonti, entrarono pure le prime vittime anche se vittime di reati “minori”. Ricordo una studentessa che aveva subito un furto in casa, e noi spesso minimizziamo queste realtà, lei invece ci raccontò che quel furto le aveva un po’ rovinato la vita, perché dopo quell’esperienza aveva paura a tornare a casa, paura ad uscire.

Poi ci fu la professoressa che ci raccontò di essere stata presa in ostaggio in una rapina in banca, anche in quel caso, e come quel fatto avesse influito tantissimo sulla sua serenità. Mentre per chi di noi aveva rapinato banche, era tutto un minimizzare “io prendo i soldi alla banca, l’assicurazione paga…”. E poi ricordo quando nel 2008 ci fu qui in carcere un convegno dove era presente Silvia Giralucci. Silvia ha perso… no, le è stato ucciso il papà quando aveva tre anni. Quel giorno ci raccontò di quella che era stata la sua sofferenza, e mi ricordo io e tanti miei compagni detenuti non riuscivamo a smettere di piangere. E ricordo che un giorno io le chiesi:

“Hai mai pensato di fare un incontro di mediazione con le persone che hanno ucciso tuo papà?”, e lei disse: “No perché io vivo con un cappotto di dolore e non voglio che neanche chi ha ucciso mio papà quel cappotto possa toglierselo”. Quando Silvia parlava, mi ricordo che davvero era una pena che graffiava il cuore, perché poi c’è l’immedesimazione, io sono direttamente responsabile, nella mia vicenda giudiziaria, che purtroppo è molto più ampia, anche di una rapina ad un furgone portavalori, dove io all’inizio dicevo: “Ho partecipato ad una rapina a un furgone portavalori, dove è morta una guardia giurata”.

È morta una guardia… Per dire delle cose bisogna a volte, quando ci si trova di fronte alle persone, soprattutto quelle che hanno subito le conseguenze delle nostre azioni, che siano mie vittime direttamente o vittime indirette poco cambia, bisogna avere l’accortezza di usare le parole giuste. E pensare che oggi ci sono io che sono condannato all’ergastolo per il reato di omicidio, e ci sono persone di fianco a me che non hanno più un familiare a causa di gesti come il mio è una cosa importante, che apre un dialogo, ma aiuta ad aprire un dialogo anche con sé stessi. E questo porta a delle svolte per entrambe le parti, che oggi ci siano persone così lontane che invece sono fianco a fianco è sicuramente importante. Tra gli strumenti che ci ha dato la Giustizia riparativa c’è proprio la capacità di ascoltare, ascoltare la sofferenza che abbiamo inflitto, il dolore che abbiamo causato.

Il racconto di Silvia Giralucci

Io ho perso papà quando avevo tre anni. Quando ero bambina mi capitava che mi chiedessero: “E la tua famiglia? Non parli mai del tuo papà”, e io dovevo dire che era stato ucciso. E a quel punto seguiva la domanda: “E come?”, e così dovevo rispondere: “Dalle Brigate Rosse”. A quel punto l’interlocutore era devastato perché mi aveva creato imbarazzo, e io anziché trovare supporto per me, dovevo anche cercare di supportarlo. Sono entrata in carcere col preciso intento di dire finalmente ai detenuti quello che provavo, di raccontare come mi sentivo e soprattutto di fagli sapere che non accettavo che loro dicessero che finita la pena avevano pagato il loro debito con la giustizia, perché il loro debito con me non lo avrebbero pagato mai, io il peso lo portavo tutti i giorni, per sempre, e mi aspettavo che lo portassero anche loro.

Che cosa è successo quel giorno? Quello che è successo a loro lo ha raccontato Marino, quello che è successo a me è che per la prima volta mi son sentita ascoltata, ho sentito che potevo trovare qualcuno che avesse la forza di ascoltare questa storia così terribile e in qualche modo di condividerla. Negli anni successivi questa esperienza di volontariato in carcere mi ha offerto il modo di dare un senso alla mia storia, perché se raccontarla e condividere questo peso poteva aiutare qualcuno a riflettere su quello che aveva fatto e a tornare alla società diverso, la mia storia poteva avere un senso.

E poi è diventata una riflessione di tipo politico: se quello che viene istintivo quando uno commette il reato è dire: “Bene, tu hai commesso un reato, non sei degno di stare in questa società, noi ti chiudiamo e per dare un senso di giustizia alla vittima, diamo la pena più dura possibile e buttiamo via la chiave”, ecco, quello che vorrei testimoniare è che non c’è nessuna terribile pena che possa lenire il dolore di una vittima. Quello che lo lenisce è il riconoscimento e la presa in carico da parte della società di quel dolore, e questo è molto più difficile che infliggere una pena a chi ha sbagliato, che comunque dovrà tornare in società. Per questo ci conviene dare un senso alla pena. Io non vengo a fare la volontaria in carcere perché sono buona, lo faccio perché mi conviene che tornino in società persone migliori di come sono entrate qui. *Ristretti Orizzonti