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di Franco Corleone

L’Espresso, 10 novembre 2023

Il governo dei buoni a nulla e capaci di tutto, col decreto legge 123 del 15 settembre, denominato “decreto Caivano”, ha confermato la sua vocazione di rozza approssimazione. L’occasione di propaganda è stata offerta dalla tragica violenza contro due ragazzine in un paese disastrato e il decreto ha l’obiettivo ambizioso di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa, alla criminalità minorile. Nel provvedimento, è presente una norma assolutamente estranea: la modifica del comma 5 dell’articolo 73 della legge antidroga, ossia l’aggravamento per i reati di droga “di lieve entità”.

È un vizio antico quello di intervenire con norme punitive sul consumo di droghe in decreti utilizzati come taxi. Così era stato per la legge Fini-Giovanardi inserita illegalmente nel decreto delle Olimpiadi invernali di Torino nel 2006. Si dovette aspettare la Corte costituzionale che nel 2014 cancellò quella legge manifesto del proibizionismo più sfrenato. La previsione di pene più leggere per i reati di droga meno gravi ha una lunga storia. Nasce con la legge Iervolino-Vassalli del 1990 che segna il giro di vite punitivo voluto da Bettino Craxi.

Di fronte alla previsione di sanzioni penali per il consumo personale, fu segno di buon senso (e frutto della battaglia delle opposizioni) alleggerire parzialmente la pressione introducendo una attenuante “per fatti di lieve entità” (con la detenzione da uno a sei anni per le droghe pesanti, da sei mesi a quattro anni per le droghe leggere).

Il senso della norma più lieve risulta chiaro guardando alla estrema severità delle pene base: reclusione da otto a venti anni per le droghe pesanti, da due a sei anni per le droghe leggere. La legge Fini-Giovanardi eliminò la distinzione tra droghe leggere e pesanti, perciò anche la “lieve entità” per la cannabis fu aggravata, allineandola alle droghe pesanti. Nel 2013 anche in seguito alla battaglia di associazioni antiproibizioniste, la lieve entità da semplice attenuante divenne fattispecie autonoma. Infine, nel 2014 (d.l. 36 convertito in legge n. 79) questa fu riconfermata con una diminuzione della pena da sei mesi a quattro anni (senza distinzione tra le sostanze). Inopinatamente, nel famigerato “decreto Caivano” la pena massima veniva innalzata a cinque anni e un senatore di Fratelli d’Italia proponeva l’abolizione della lieve entità se il fatto era commesso “a scopo di lucro” (sic!).

L’abnormità era tale che il governo ha riformulato l’emendamento con una pena più grave (da 18 mesi a 5 anni), quando la condotta assuma “caratteri di non occasionalità”. Questa norma viola il principio di ragionevolezza in quanto la pena si avvicina per la cannabis alla pena base e non tiene conto della linea della giurisprudenza e della sentenza della sezione sesta della Cassazione (n. 41090 del 2013) che interpreta il carattere non episodico del piccolo spaccio secondo il principio di proporzionalità della pena.

Il risultato sarà quello di dilatare la carcerazione e rendere più ardue le alternative. C’è del metodo nella follia del governo e della maggioranza che ignora lo studio della Cassazione pubblicato nel Libro Bianco sulle droghe della Società della Ragione. Che fare? Ottenere finalmente la piattaforma per la firma digitale dei referendum e rilanciare la sfida nel Paese contro il proibizionismo.