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di Alberto Cisterna

Il Riformista, 10 dicembre 2022

Il discorso programmatico di Nordio innanzi alla commissione Giustizia del Senato ha, per ora, registrato molti silenzi. Anche troppi in verità. Messo da parte il solito refrain forcaiolo di noti circoli che vedono minacciata la vita stessa della Repubblica da una riforma dei reati di corruzione che pare ai più avveduti come inevitabile (si veda l’intervista del procuratore Cantone di ieri), le idee di via Arenula prefigurano un vero e proprio stravolgimento dell’assetto organizzativo della magistratura italiana, a partire dal tema incandescente, anzi rovente, della separazione delle carriere.

Sia chiaro, tutti sanno che i passaggi dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa sono ormai pochissimi; tutti sanno che per eseguire una tale inversione di rotta è necessario, e da anni, cambiare il distretto giudiziario di appartenenza; tutti sanno che il brusco innalzamento dell’età media dei magistrati italiani comporta inevitabilmente una scarsa propensione alla mobilità territoriale. È un totem, si potrebbe dire. Ma è al contempo il simbolo di una precisa concezione del ruolo del pubblico ministero, tutto inglobato e coeso con la giurisdizione vera e propria nella consapevolezza che fuori da quel circuito - come dire - non c’è salvezza. Discutere, quindi, degli esigui scambi di funzione, della cristallizzazione territoriale dei magistrati ha poco senso perché, chiaramente, la partita è altra. È tutt’altra.

L’inserimento del pubblico ministero nell’alveo costituzionalmente protetto e riparato della giurisdizione conferisce all’esercizio dell’azione penale quarti di nobiltà, stimmate di terzietà che fuori di essa non potrebbe avere. Se da “parte imparziale”, come recitava un’antica teorica, il pm diviene “parte parziale” perché titolare di una precisa posizione antagonista rispetto all’imputato, allora l’espulsione da circuito della giurisdizione è non solo consequenziale, ma addirittura necessaria. Il ministro Nordio muove da due presupposti teorici e politici che è difficile contestare: il codice Vassalli del 1988 è di stampo accusatorio con la diretta dipendenza della polizia giudiziaria agli ordini del pubblico ministero, il ché è urticante da un punto di vista ordinamentale; la riforma dell’art. 111 della Costituzione prescrive che il processo penale debba aver luogo innanzi a un giudizio terzo e imparziale con le parti in posizione di parità tra loro.

Da questi capisaldi intende muoversi via Arenula non dimenticando di ricordare che Vassalli, oltre che esimio giurista, era anche un valoroso partigiano e che la riforma del 1999 è stata approvata sotto l’ombrello del governo D’Alema; norme, quindi, esenti da sospetti di simpatie destrorse o antidemocratiche. Ma come si diceva, per ora tutto tace. È evidente che non si vogliano surriscaldare gli animi in vista della scelta, da parte del Parlamento in seduta comune, dei 10 componenti laici che permettano l’insediamento del nuovo Csm già eletto nella parte togata. La possibilità che le opposizioni, con un’intesa della maggioranza con Renzi e Calenda, restino fuori da Palazzo dei Marescialli sarebbe una sgrammaticatura costituzionale, ma in teoria non è detto che tutte le opposizioni debbano avere diritto di tribuna nel Csm: nella scorsa consiliatura Fratelli d’Italia restò senza uno scranno.

Il problema non è di poco conto. Un nome autorevole da parte delle opposizioni (e se ne ventilano di molto autorevoli) vedrebbe quasi inevitabilmente coagularsi su questo il consenso della maggioranza della componente togata con la possibilità - o rischio, dipende dai punti di vista - che la vice Presidenza finisca nelle mani proprio di una personalità estranea all’attuale maggioranza parlamentare. Quindi, pensa qualcuno, meglio riporre le scimitarre nel fodero, per sguainarle dopo che la battaglia sul vice presidente sarà conclusa. Una polemica al calor bianco di questi tempi potrebbe indurre la maggioranza a far en plein con scelte sommamente poco gradite a buona parte della corporazione; d’altronde è ciò che capita in tempi di guerra.

Quindi, probabilmente, il discorso di Nordio sarà tenuto in sordina e messo da parte nell’attesa - come si vuol dire quando si fa melina e si temporeggia - di leggere con immancabile “attenzione” il testo delle proposte di legge che verranno elaborate dall’Ufficio legislativo di via Arenula, su cui siede un magistrato di altissimo profilo professionale e scientifico, e da un ministro delle Riforme, come la Casellati, con un curriculum di tutto rispetto. Insomma figure che certo non incapperanno nei pasticci di altri dicasteri in queste delicate materie (si pensi al famoso lodo Alfano e alla sua sorte) e che sono per questo interlocutori ancora più temibili.

Comunque, i pezzi si stanno collocando sulla scacchiera e inevitabilmente al ministro della Giustizia è spettato il compito di fare la mossa di apertura. Non sarà una partita facile, né scevra da imboscate e durissime polemiche, ma certo la questione ordinamentale - come si ripete da anni - è lo snodo decisivo per affrontare le criticità del processo non solo penale in Italia. Se non si disegna un’architettura equilibrata nel rapporto tra pm/polizia giudiziaria, difesa e giudice non c’è riforma, né garanzia che possa dare frutti duraturi ed efficaci.