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di Rosy Bindi e Nerina Dirindin*

La Stampa, 13 gennaio 2023

Il Servizio sanitario nazionale, un presidio fondamentale per la salute delle persone e per la solidarietà nazionale, è oggi malato. Unanimemente riconosciuto punta avanzata della pubblica amministrazione e all’avanguardia nel panorama internazionale, il Ssn appare sempre più “non autosufficiente”, ovvero incapace di svolgere autonomamente le funzioni che gli sono proprie.

Conosciamo le cause della malattia; per troppi anni è stato sottoposto a interventi contrari al rispetto dei principi costituzionali e dei diritti umani fondamentali, assecondando l’idea che il mercato avrebbe comunque potuto sostituire buona parte della sanità pubblica, quella più in grado di generare profitti. Condividiamo le tante grida di allarme che (solo) ora si levano forte, ma non accettiamo la diagnosi di incurabilità espressa da molte voci, spesso non disinteressate. Riteniamo al contrario che il Ssn possa ancora essere salvato, e si debba combattere per ridargli ruolo e dignità. Perché in assenza di sostanziali interventi straordinari e di un grande lavoro trasformativo sul piano culturale e politico, la sua “non autosufficienza” è destinata ad aggravarsi e gli italiani sono destinati a vedere la propria salute sempre più condizionata dalla loro situazione socio-economica.

Eppure, nonostante le sue tante pecche, il Ssn è un piccolo capolavoro: è l’espressione della capacità del nostro Paese di raggiungere grandi risultati con poche risorse. A dispetto della storica penuria di risorse, il Ssn ha infatti sempre saputo produrre buoni risultati in termini di salute. Valga per tutti un dato poco noto: il numero di decessi (per 1000 abitanti) ritenuti potenzialmente evitabili attraverso il ricorso a interventi sanitari tempestivi e appropriati è in Italia del 30% inferiore alla media Ue (24% in meno della Germania). Anche il tasso di sopravvivenza ai tumori è superiore alla media Ue. Un capolavoro, se si pensa che l’Italia destina complessivamente alla sanità un ammontare di risorse del 25% inferiore alla media Ue, mentre Francia e Germania spendono rispettivamente il 45% e l’85% in più (calcolate per abitante e a parità di potere d’acquisto - dati Oecd riferiti al 2019).

Ma come si spiega l’apparente paradosso della bassa spesa e dei buoni risultati? Innanzitutto, un sistema universale come il nostro evita la spirale dei costi propria dei modelli basati sulle assicurazioni sociali o sulle polizze malattia (come dimostra la letteratura specialistica sui sistemi sanitari comparati). Conta la competenza acquisita nel tempo dai professionisti della sanità pubblica: il Ssn è l’unico settore della pubblica amministrazione che negli ultimi decenni si è dotato di un apparato tecnico e di un sistema di governance che - per quanto imperfetti - non hanno eguali negli altri comparti pubblici. C’è poi la preparazione dei professionisti e la loro dedizione alla sanità pubblica, magistralmente svelate in occasione della pandemia ma ancora poco riconosciute - se non a parole - dai decisori e dalla politica.

Conta il ruolo svolto dalle famiglie (e dalle donne) nella cura di molte persone fragili, senza gravare eccessivamente sulla spesa pubblica. E, per ironia della sorte, contano le politiche di risanamento della finanza pubblica che hanno costretto la sanità pubblica a puntare sull’appropriatezza e sull’essenziale. E così il Ssn ha via via imparato a operare sempre con meno risorse, mentre i governi hanno imparato a imporre sempre maggiori sacrifici, confidando sul fatto che nessun ospedaliero avrebbe abbandonato un paziente alla fine del proprio turno di lavoro o si sarebbe sottratto ai doveri cui deve adempiere “quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera” (come afferma il codice di deontologia medica). Un modo di procedere, quello dei governi, poco responsabile e al contempo poco rispettoso della dignità del lavoro di cura, che invece andrebbe protetto e valorizzato. Ma ormai il vaso è colmo, gli operatori si sentono traditi e le persone si stanno abituando a rivolgersi al privato.

Come procedere allora? È innanzitutto necessaria una seria riflessione sulla pandemia ideologica che da un paio di decenni ha colpito il nostro Paese e ha spinto i governi a ridurre progressivamente il ruolo dello Stato, in particolare nel welfare. Eppure, in nessun altro settore come in quello della salute, i fallimenti del mercato sono noti, rilevanti e causa di disuguaglianze. Il Ssn è un patrimonio di civiltà proprio perché garantisce a tutti un trattamento uguale a quello riservato ai più fortunati e perché libera ognuno di noi dalla paura di non avere i soldi per curare un figlio o un familiare. Al contrario, le assicurazioni evitano le persone più esposte al rischio di ammalarsi e impongono tetti massimi di rimborso che penalizzano proprio chi ha più bisogno. Non si tratta di demonizzare il mercato ma di riconoscerne i vizi, e non solo le virtù, a maggior ragione quando producono ingiustizie. E si tratta di non dimenticare che la salute non è solo un diritto individuale ma è anche interesse della collettività, come ci ha ricordato la pandemia.

È necessario poi accantonare ogni ipotesi di autonomia differenziata: i problemi sollevati dalle Regioni sono comuni a tutta l’Italia e vanno affrontati a livello nazionale. In un Paese attraversato da profonde disuguaglianze territoriali va evitato di attribuire maggiore autonomia a chi presume di essere in grado di risolverli meglio e più rapidamente degli altri, ma sicuramente a danno delle Regioni storicamente meno attrezzate.

Fondamentale è avviare una seria politica del personale, capace di riconoscere il valore del lavoro di cura, a maggior ragione in un settore ad alta intensità di lavoro. Il trattamento che riserviamo ai nostri professionisti rivela il tipo di assistenza che vogliamo dare alla popolazione: un’amministrazione che non rispetta le norme sugli orari di lavoro, non rinnova i contratti di lavoro, ricorre all’intermediazione di manodopera, incoraggia l’impiego dei “gettonisti”, sottovaluta la programmazione della formazione delle diverse figure specialistiche, non può che essere un’amministrazione che non ha a cuore l’affidabilità del servizio offerto. Il giudizio avvilente coinvolge sia i governi centrali sia quelli regionali, i quali con la scusa della carenza di risorse hanno rinunciato a svolgere la loro principale funzione, la tutela della salute, mentre adesso devono dimostrare di saper utilizzare al meglio i fondi del Pnrr. Tutto ciò richiederebbe più impegno (a partire dal livello centrale), più risorse (in armonia con quanto succede negli altri paesi sviluppati) e più indipendenza dagli interessi dell’industria della salute. Ne trarrebbe giovamento persino l’economia, grazie alla riduzione dell’incertezza e della precarietà.

Ma viviamo tempi difficili. La storia della sanità pubblica italiana ci induce ad essere ottimisti mentre le tante incrostazioni ci portano a temere che le cose possano volgere al peggio. Nessuno comunque pensi di cavarsela da solo, né i professionisti che scappano nel privato né chi ritiene sufficiente dotarsi di una copertura assicurativa.

*Associazione Salute Diritto Fondamentale