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di Franco Corleone

L’Espresso, 18 febbraio 2024

Gli scritti di Peter Cohen sulle droghe rivelano come il “pugno duro” del governo sia anacronistico. Il consumo di stupefacenti va ricondotto alla dimensione umana. Alla storia e alla filosofia. L’idea di raccogliere gli scritti di Peter Cohen in un volume ci è venuta quasi naturale, considerando il loro valore. Avevamo però la preoccupazione che potessero apparire legati a un confronto politico superato, dopo la svolta di legalizzazione della cannabis verificatasi prima in Uruguay, poi in Canada e soprattutto negli Stati Uniti.

E considerando che questi radicali cambiamenti sono avvenuti relegando le Convenzioni Onu sullo sfondo come mummie inaridite: a riprova peraltro dell’acume politico di Cohen, che molti anni prima aveva scritto invitando i riformatori a non impegnare le loro forze nella battaglia per cambiare le Convenzioni, i “testi sacri della Chiesa della proibizione”; e a scegliere l’obiettivo più realistico e conveniente di lasciare che i trattati internazionali deperiscano nel tempo, come sembra stia accadendo.

La riserva è però caduta guardando al contesto italiano e alla novità dell’ascesa al governo della destra nel 2022. La premier Giorgia Meloni, che da sempre si è battuta per il “pugno duro sulla droga”, ha dato l’avvio a una aggressiva campagna neoproibizionista, affidata al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, lo stesso che venti anni fa fu l’ispiratore del giro di vite della legge Fini-Giovanardi. Rientra oggi in circolazione la stessa paccottiglia di parole d’ordine reazionarie, fondata sugli stessi “miti”: la “droga è droga”, senza distinzione, perché la droga è il Male con la m maiuscola. Va perciò combattuta senza cedimenti alla riduzione del danno.

Nel mirino è soprattutto la cannabis, stepping stone (o droga di passaggio) alle sostanze pesanti: il “mito” per eccellenza per sbarrare la strada alla legalizzazione. Quanto ai consumatori “tossicodipendenti”, devono essere rinchiusi nelle comunità sul modello di San Patrignano: per “salvarsi” dalla droga, nell’anima e nel corpo. Gli scritti di Cohen sono perciò un patrimonio prezioso in questo frangente politico, è ovvio. Ma gli faremmo un torto se volessimo rinchiudere la valenza politica del suo lavoro nel recinto della contingenza attuale.

C’è un filo rosso nel suo pensiero, valido oggi come domani, perché indica il rapporto rigoroso che deve intercorrere fra scienza e politica; fra teoria e ricerca per validare gli assunti teorici, da una parte, e le scelte politiche conseguenti, dall’altra. Lo stesso filo di tessitura della sua identità e del suo impegno personale. Peter è un politico e un attivista in quanto studioso che mette a disposizione della politica il suo sapere.

Ed è uno studioso in quanto animato dalla passione politica, in primo luogo di ricondurre l’uso di droghe alla dimensione umana, di interpretarlo in una cornice larga, facendo ricorso alla storia e alla filosofia (prima ancora della sociologia). Si legga l’illuminante scritto “La religione laica dell’individuo indipendente” che spiega la profonda paura della “dipendenza” quale minaccia agli ideali della cultura occidentale. Tornando al rapporto fra scienza e politica.

La scienza serve in primo luogo a mettere in luce il carattere non-scientifico delle attuali politiche proibizioniste, fondate sull’idea dell’uso di droga come male e danno (non controllabile se non con il ricorso alla proibizione). Per un movimento in marcia verso il “cambio di paradigma”, questo volume può essere un alleato prezioso.

Il libro - “Dalla parte della ragione. Scritti sulle droghe per Fuoriluogo e altri saggi” di Peter Cohen, a cura di Franco Corleone e Grazia Zuffa (Edizioni Menabò, 2023)