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di Massimo Cacciari

La Stampa, 10 luglio 2023

La storia si ripete identica e i suoi diversi protagonisti ne ignorano o fingono di ignorarne il senso. Una politica debole, forme di governo che si fondano su coalizioni posticce, prive di ogni contenuto strategico, producono per necessità l’effetto che funzioni tecnico-amministrative dello Stato assumano, anche al di là delle loro intenzioni, immagini e ruoli tendenti a supplirne le deficienze.

Negli anni 90, dopo il delirio giustizialistico succeduto a Tangentopoli (con il conseguente oscuramento del reale significato storico di quella stagione) questa tendenza giunse all’apice. Ma nulla si è fatto per correggerla alla radice. Correggerla avrebbe significato riforma della Giustizia in tutti i suoi settori, ma non solo: anche metter mano a una legislazione che disboscasse l’attuale giungla di norme e dispositivi che si contraddicono e sovrappongono in quelle materie più esposte al rischio di corruzione, di abuso di ufficio, ecc. Insomma, ancora una volta, riformare - esattamente ciò di cui le classi dirigenti di questo Paese si sono dimostrate incapaci.

Non che mancassero le idee, un confronto culturale serio tra linee diverse ci è stato - è mancata la forza costituente, una maggioranza politica ampia e coesa decisa ad affermare la propria. Così pallidi pensieri si sono confusi con ancor più pallide volontà. L’assenza di una vera cultura del diritto nella classe politica ha regnato sovrana. Dal giustizialismo quando si tratta di colpire l’avversario allo strenuo garantismo (per modo di dire) quando è in gioco la difesa di sé stessi. Dal Berlusconi (lo prendo a insuperabile esempio) che vuole Di Pietro ministro Guardasigilli, al Berlusconi dell’arrogante quanto assurda pretesa di una politica che si auto-assolve in nome del popolo sovrano. E tutti insieme appassionatamente nell’uso più o meno spregiudicato di indagini, inchieste, avvisi di garanzia, intercettazioni per colpire l’“altra parte”. Prepotente ruolo della giustizia nella lotta politica - e poi qualcuno si stupisce del protagonismo di alcuni settori della magistratura?! E tutti a farsi male, ovviamente: la politica che non capisce di delegittimarsi in quanto tale in una lotta in cui ciascuno tiene il coltello dalla parte del taglio - la stessa magistratura che, anche a non volerlo, finisce con l’assumere un’immagine di soggetto politico, di “parte in causa” - con le conseguenze che si sono viste: crescente, drammatica perdita di autorevolezza e credibilità. La sola “carica” del nostro Stato che regge sembra a questo punto essere il Presidente della Repubblica, nostalgia quasi della figura paterna. Auguri ai naviganti che vorrebbero scassare anche questa con dilettanteschi o propagandistici progetti presidenzialistici.

Questa triste situazione dovrebbe forse suscitare qualche interrogativo auto-critico sullo “stato presente dei costumi degli italiani” (Leopardi). Temo che i nostri padri costituenti avessero una cultura del diritto molto lontana da tali costumi. Al suo centro vi era l’idea dell’inviolabile dignità della persona. Idea che in alcuni di loro rivelava un fondamento teologico, ma che altri acquisivano da matrici illuministiche anche proprie della nostra cultura (Verra, Beccaria). Non è proprio questa idea a dissolversi oggi nel crogiolo della crisi tra politica e Giustizia? Quale valore mantiene la persona nella sistematica violazione della sua privacy che è oggi di fatto consentita? Nella trasformazione di ogni non dico processo, ma semplice indagine in condanna?

Nella liquidazione di fatto del principio fondamentale che ritiene innocente chiunque fino a sentenza definitiva? Più in generale ancora: i principi-cardine di un ordinamento garantista vengono, da molto lontano, almeno dalla fine degli anni 70, subordinati alle “ragioni” dettate dalle varie “emergenze” che da allora si susseguono. Senza che si regolino in alcun modo, come pure il diritto imporrebbe, i margini nei quali quell’ordinamento possa anche essere forzato. L’eccezione diventa arbitrio se non viene a sua volta normata.

Ma una simile tendenza, non vi è dubbio, appare culturalmente consona allo “stato attuale dei costumi degli italiani”, propensi a trovare il colpevole al di qua di ogni ragionevole dubbio, a seguire le chiacchiere decisionistiche prima di ogni analisi dei fatti e discussione responsabile. In un contesto generale in cui sembrano prevalere spinte sicuritarie e identitarie. La politica impotente a riformare asseconda servilmente tali costumi, fa leva su di essi per inseguire i propri fini di brevissima durata. E taglia così il ramo su cui è seduta. Può essere che da quel ramo cada anche l’abile Meloni.

Certo non cadrà per mano di una opposizione che a contraddittori e asfittici progetti di riforma della Giustizia oppone ancora quella forma mentis conservatrice, che l’ha bloccata in questi decenni, che si trattasse di mercato del lavoro o di politiche fiscali, di istituzioni nazionali o europee, e che ci fa ritrovare oggi con un parlamentarismo esangue surrogato da uno pseudo-presidenzialismo, e con le funzioni tecnico-amministrative dello Stato dominate tutte da istanze corporative altrettanto, per natura, conservatrici.

Cominci questa opposizione a dire concretamente che cosa intende per riforma della Giustizia - vuole, ad esempio, non toccare il reato di abuso di ufficio? E allora sappia che non vuole alcuna riforma, poiché tale reato come ora si configura è qualcosa di insostenibile, confondendo in sé posizioni e casi del tutto opposti, come qualsiasi amministratore sa benissimo sulla propria pelle. E tenga finalmente fermo nel suo agire, questa presunta opposizione, il principio a cui ci siamo sopra riferiti: è sempre una persona quella contro cui l’azione penale si rivolge, e anche il semplice essere indagati è già una pena, soprattutto per chi è onesto e tiene alla propria dignità sopra di tutto.