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di Vittorio Lingiardi

La Stampa, 23 novembre 2023

In questo momento è importante sentirsi soggetti di un fronte comune, dove ciascuno può fare la sua parte, nel tentativo di incidere sull’educazione scolastica. Purtroppo senza ricette sicure e senza troppe illusioni. Il progetto presentato ieri dal ministro Valditara, pensato dopo le orribili vicende estive di Palermo e Caivano, ha un bel nome: Educare alle relazioni. L’accento sulle relazioni mi sembra opportuno. In un mondo sempre più virtualizzato e banalizzato, è nostro compito educare al rispetto dei corpi e delle relazioni e diseducare alla trasmissione acritica degli stereotipi di genere. Giusta anche l’idea di procedere con gruppi di discussione. Spesso dico di non credere a interventi puramente “didattici” tipo l’”ora di educazione civica”. Coi ragazzi e le ragazze è infatti importante un’esperienza più immersiva, capace di esprimere soggettività e specificità, di ascoltare testimonianze dirette ed esempi, di lavorare su case studies.

Il progetto del ministro è una sperimentazione: molto dipenderà dalla qualità e dalla competenza degli “educatori” coinvolti. Se sono incapaci è un bel problema. Già saper fornire informazioni non è semplice (buona l’idea di “docenti referenti” e “docenti moderatori”, anche se per i docenti è un grande carico e una notevole responsabilità), ma quando occorre mettersi in gioco su e con temi emotivamente forti, ci vuole una formazione professionale, che significa, tra le altre cose, specificità, aggiornamento, astensione dal giudizio. Bene sentire che “all’Ordine degli Psicologi chiederemo aiuto per la formazione dei docenti, per la loro assistenza e per il monitoraggio conclusivo”. David Lazzari, presidente dell’Ordine, me lo conferma. Sono contento sia stato interpellato e ascoltato: pensare di realizzare un progetto come questo senza coinvolgere figure di psicologhe e psicologi sarebbe stato un errore, di metodo e contenuto. Dicevo che è un esperimento: 30 ore all’anno alle medie e nel triennio delle superiori. Quando leggo “extra curricolare” e, soprattutto, “adesioni facoltative” ho paura che tutto rischi di finire nel vago. Speriamo non sia così. Il monitoraggio e lo studio dei feedback sarà fondamentale per sviluppi futuri.

Proprio ieri, a lezione, le mie studentesse e i miei studenti, future psicologhe e futuri psicologi, si domandavano e mi domandavano (l’esperto!) dove inizia il tema della cultura sociale (detto in breve, troppo in breve, il patriarcato) e dove quello della patologia personale, del disturbo di personalità (mancanza narcisistica di empatia, gelosia e controllo paranoidi, violenza psicopatica, disprezzo sadico). E lì a spiegare che personalità e cultura crescono insieme. Ma anche che, a complicare il discorso, ci sono il ruolo intrinseco della biologia e, in alcuni casi, quello estrinseco dell’assunzione di sostanze. Insomma, niente è semplice o monodimensionale.

Educare alle relazioni non può che essere un progetto a lunghissimo termine in vista di trasformazioni culturali profonde. Partire dal coinvolgimento scolastico delle e dei più giovani, appassionandoli a un racconto alternativo a quello millenario dell’inferiorità femminile, può e deve essere un primo passo. Magari con storie capaci di disattivare fallacie cognitive tipo “se l’è andata a cercare” oppure “il raptus di un bravo ragazzo”. Sarà importante parlare della violenza degli aggressori, ma anche fornire alle ragazze strumenti “diagnostici” per riconoscere certi segnali e sfilarsi da incontri pericolosi e relazioni tossiche. E per conoscere meglio se stesse. In molti casi l’ideale sarebbe un rapporto individuale e/o di gruppo con figure professionali competenti nell’ascolto, nell’esplorazione e nel sostegno. Mentre lavoriamo perché questo ideale sia realizzabile, promuovere azioni di terapia sociale e scolastica, se con gli strumenti giusti e le capacità adeguate, è un passo da guardare con favore.