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di Patricia Tagliaferri

Il Giornale, 18 luglio 2023

I detenuti a fine pena cercano la loro nuova occasione per ricominciare e non sbagliare più. Sgravi fiscali per chi li assume ma la legge Smuraglia, in vigore da 23 anni, non è applicata ovunque.

Le porte sono aperte, durante il giorno i detenuti possono girare liberamente, parlare nei corridoi, fare varie attività per rendere meno alienante la loro pena. Lo prevede la cosiddetta “sorveglianza dinamica” consentita nel Nuovo Complesso del carcere di Rebibbia ai “definitivi”, che hanno condanne passate in giudicato.

Sgarrare qui vuol dire essere trasferiti: uno sbaglio e addio al G8, il reparto più ambito, dove non si sta tutto il tempo in cella ad aspettare l’ora d’aria, ma c’è la sala musica, quella del bricolage, la biblioteca, la falegnameria, si può giocare a tennis, a calcetto o studiare. Oggi è giornata di colloqui e i detenuti sono in fibrillazione. Aspettano fuori da una porta, pieni di speranza, ben sapendo che lì dentro, in cinque minuti, si giocano il futuro. Il futuro, sì.

Perché da quando “Seconda Chance” - l’associazione della giornalista di La7 Flavia Filippi - entra nelle carceri per promuovere la poco conosciuta legge Smuraglia, i detenuti possono pensare che, una volta fuori, anche loro potranno avere una seconda possibilità. E per ripartire, per non ricascarci, per cercare di diventare persone diverse, serve prima di ogni altra cosa un lavoro che gli restituisca dignità e autonomia. E le statistiche dimostrano che dando alle persone la possibilità di ricominciare, il tasso di recidiva crolla dal 68% al 19%.

Ma non è cosa facile trovare qualcuno disposto ad assumere chi è stato dentro. È questa la missione di “Seconda Chance”: mettere in contatto imprenditori senza pregiudizi, ma anche enti pubblici e aziende, con i detenuti ammessi al lavoro esterno (una possibilità prevista dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario), come consente questa legge dimenticata e soffocata dalla burocrazia.

Obiettivo di Seconda Chance è - grazie alla collaborazione con l’amministrazione penitenziaria - smuovere le montagne pur di “piazzare” i detenuti che hanno i requisiti per lavorare e poi tornare in cella la sera, “preparando” così il terreno per il proprio rientro in società. Nella convinzione che tutti, anche chi nella vita è inciampato, meritano una possibilità di riscatto. Perché una terza chance, poi, non te la dà nessuno. E per quanto da dietro le sbarre si sogni un “dopo” diverso, senza un aiuto spesso ci si scontra con la realtà.

Vicino alla sala dei colloqui c’è una bacheca con le offerte di lavoro, per lo più si tratta di impieghi nel settore della ristorazione e dell’edilizia, ma non solo: cuochi, camerieri, lavapiatti, manovali, magazzinieri, pittori, falegnami, elettricisti.

Chi assume non fa solo un’azione di alto valore sociale ed etico, ma ottiene importanti incentivi fiscali (un risparmio di circa 520 euro al mese tra contributi e tasse). Entriamo a Rebibbia Nuovo complesso, diretto da Rosella Santoro, con “Seconda Chance” e con un imprenditore disposto ad offrire un lavoro. Oggi è il turno del titolare di un bar-ristorante nel centro della capitale. Non è qui per gli sgravi fiscali ma perché gli piace poter aiutare chi sta cercando di riprendersi in mano la vita. Un agente della penitenziaria ci viene incontro per accompagnarci ai colloqui, dove ci aspetta l’ispettore Cinzia Silvano, caporeparto del G8.

È lei che seleziona i detenuti. Di quelli del suo reparto conosce non solo il curriculum criminale e il percorso di riabilitazione, ma anche le storie personali, il carattere, i difetti e le virtù. Entra per primo Fabio, 45 anni, di Ostia, dove per 15 anni, prima di essere arrestato, ha fatto il falegname al cantiere nautico della Canados. Ha già fatto il cameriere qualche volta.

E se c’è da aiutare in cucina, nessun problema, sa fare anche quello. È quasi a fine pena e ha una figlia di 13 anni, non può deluderla. Poi tocca ad Alessandro, 50 anni, pronto a fare l’aiuto chef. Non l’ha mai fatto, ma in cella prepara le fettuccine per gli altri. A volte gli gnocchi alla carbonara. È il turno di Daniele, 42 anni, pieno di tatuaggi, fine pena nel 2026, romano del Prenestino, moglie e tre figlie. L’ispettrice ha solo parole buone per lui. “Ho tanta buona volontà, non vi deluderò”. L’imprenditore ascolta tutti con attenzione, fa domande, cerca di inquadrare i personaggi. Non ha preclusioni, ma si informa sui reati commessi dai vari detenuti, che per lo più sono di droga. Traffico di stupefacenti, ma anche truffe, estorsioni e associazioni a delinquere. Chiede se hanno recidive, perché è facile che chi ha sbagliato più di una volta ci ricaschi. Alla fine sceglie Daniele. “Mi ha colpito quella frase, “non vi deluderò”.

Sono decine le storie di reinserimento avviate da “Seconda Chance”, che finora ha procurato il lavoro a circa 180 detenuti in tutta Italia. Una delle tante arriva dal carcere di Civitavecchia, dove dal 2019 è recluso Massimiliano, 27 anni, romano, di buona famiglia, fine pena 2029. Da quando è stato assunto come magazziniere insieme ad un altro italiano da Jouele, un’azienda che fa logistica per Conad Nord Ovest, è come rinato.

Nessuna preclusione da parte di Serafini: “Il nome del progetto parla chiaro: si tratta di dare una seconda possibilità a persone che hanno sbagliato ma stanno intraprendendo un percorso di ricostruzione della propria vita”. Poi c’è Francesco, del 2001, che per mesi ha fatto il cameriere da Porto, un fish&chips nel quartiere Prati, a Roma. La mattina usciva, seguendo un percorso obbligato, poi la sera tornava in cella.

“Grazie a questa esperienza ho ricominciato a credere in me stesso”, racconta l’ex detenuto che a gennaio ha finito di scontare la pena ed è tornato dalla madre in un paese in provincia di Latina. Filippi spiega in poche parole il senso e il valore sociale del suo progetto: “È cominciato come una passione, è diventato una missione, talvolta un’ossessione, compatibilmente con il mio impegno di inviata per il Tg di La7. So che se mi strutturo bene e riesco ad avere un nostro referente in ogni regione e un domani in ogni città dove c’è un carcere, potrà funzionare sempre meglio. Parteciperemo a bandi pubblici, cercheremo sostenitori e finanziatori. Non è una cosa che si può fare alla leggera, perché i detenuti ci affidano la loro disperazione, spesso siamo gli unici che gli rispondono. E non possiamo deluderli”.

Che fatica farsi assumere dopo i 50 anni: il 70% dei disoccupati ci rinuncia

Una seconda chance non serve solo ai detenuti, ma anche a tutti quelli che a 40-50 anni sono costretti a cambiare vita perché da un giorno all’altro rimangono senza lavoro. E non sono pochi. Anche se si parla sempre di disoccupazione giovanile, quello delle persone in età matura che si ritrovano catapultati in una realtà che mai avrebbero immaginato di vivere, alla disperata ricerca di un impiego quando si sentivano ormai “tranquilli” nella loro posizione professionale, è un fenomeno sociale ed economico di cui si parla poco e di cui nessuno si cura, anche a livello legislativo, lasciando questa categoria da sola ad affrontare un vero e proprio tsunami pratico ed emotivo.

È più facile che si parli di chi molla tutto per cambiare vita, magari aprendo il classico chiringuito sulla spiaggia, che di quanti sono costretti a doversi reinventare quando spesso hanno i figli ancora piccoli e magari genitori anziani da accudire, in una fascia di età in cui ricollocarsi non è per niente facile. In cui ci si sente una zavorra, discriminati perché troppo vecchi o troppo qualificati, umiliati dalle aziende che preferiscono i giovani, che costano meno, sono più flessibili e hanno maggiore dimestichezza con la tecnologia.

Stereotipi spesso difficili da combattere. Seppur i social siano pieni di consigli pratici di come trovare lavoro a 50 anni e propongano racconti quasi epici di chi ha avuto una seconda possibilità in età matura, nei fatti si dimostra una missione tutt’altro che facile. Nella maggior parte dei casi prevalgono storie di persone che si scoraggiano anche solo a leggere le inserzioni di lavoro, di porte sbattute in faccia, di discriminazioni per età, di crolli emotivi quando non si è abbastanza strutturati per accettare di essere troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per la pensione.

Al punto che oltre il 70% dei disoccupati maturi ha perso ogni speranza di ricollocarsi. Il motivo per il quale si parla tanto di disoccupazione giovanile è che in termini percentuali (28,8% nel 2022 con 464mila under 24 senza un impiego) è molto elevata, tanto che la politica si dà giustamente da fare per aiutare il loro inserimento lavorativo. Anche se in realtà la dimensione numerica reale della classe giovanile è inferiore di circa il 30% rispetto ad altre fasce e che a soffrire maggiormente dello stato di disoccupazione sono i cosiddetti lavoratori “maturi” (over 40-50-60), quelli che vengono definiti “longennials”.

Nel 2022 le persone tra i 45 e i 54 anni senza lavoro erano 773mila (il 10%), mentre quelle tra i 55 e i 64 anni erano 545mila (il 10,2%). Ma nonostante contino le persone fisiche, non le percentuali, la politica tende a decidere in base a queste ultime. Il risultato è che le fasce di età più avanzate, spesso target privilegiato delle ristrutturazioni aziendali, vengono praticamente lasciate a se stesse con professionisti che non riescono a rimettersi in gioco perché considerati un fardello, non una risorsa, costretti a inventarsi una nuova attività. Si tratta di un problema sottaciuto, quello della disoccupazione senior, che però ha molti risvolti economici e sociali. Oltre a devastanti effetti personali di perdita di dignità e di identità.

“C’è lo stereotipo che l’over 50 è un peso e quindi le aziende non lo prendono neanche in considerazione. E non esistono politiche di sostegno dal punto di vista istituzionale”, spiega Giuseppe Zafferano, presidente dell’associazione Lavoro over 40, che si occupa di valorizzare questa categoria di lavoratori “dimenticata”.

“Non ci sono incentivi, o ce ne sono pochi, e comunque gli incentivi - continua Zafferano - tendono a drogare il mercato, mentre bisognerebbe cambiare cultura e fare come nei Paesi anglosassoni dove si seleziona in base alla “qualità”, non all’età, come da noi”. Le aziende dovrebbero essere messe in condizione di scegliere per meritocrazia, senza badare alla data di nascita: se sei un buon professionista, lo sei a 50 anni come a 30.