di Ezio Mauro
La Repubblica, 20 novembre 2023
Il governo della destra lancia un esperimento ambizioso: la creazione di un nuovo scenario sociale, che definisce e determina il contesto in cui i cittadini negoziano quotidianamente le loro quote di libertà. Chi pensava che la battaglia per la conquista dell’egemonia culturale fosse una sfida accademica tra Gramsci e Tolkien, può finalmente ricredersi. Andata al governo, la destra estrema guidata da Giorgia Meloni ha prima bloccato il flusso naturale della storia repubblicana, per neutralizzare lo spirito costituzionale di riconquista della democrazia grazie alla ripulsa della dittatura fascista: rimettendo tutto in gioco, col ritorno all’Anno Zero. Poi ha occupato tutti gli spazi della produzione culturale e della sua diffusione, trasformando la prigionia volontaria della lottizzazione (su cui il centrosinistra si è esercitato a lungo) nella nuova servitù della propaganda, senza più limiti e confini. Ora siamo davanti a un passo in più, un esperimento ambizioso e inedito nella vicenda del Paese: la creazione di un nuovo scenario sociale, che definisce e determina il contesto in cui i cittadini negoziano quotidianamente le loro quote di libertà. Un panorama psico-politico che curva il reale a uso e consumo del potere, oggi pronto a interpretare sentimenti e risentimenti della popolazione ideologizzandoli per inserirli nella sua visione assediata del mondo. È l’ultima sfida: potremmo dire che nell’attuale fase di disordine, il vero sovrano è chi modella il paesaggio sociale in cui tutti ci muoviamo a tentoni.
Il nuovo pacchetto sicurezza é un esempio perfetto di questa strategia. Inventando nuovi reati e aumentando le pene, più che rispondere ad un vero allarme diffuso tra la popolazione il governo dichiara di fatto un clima di emergenza certificato dal potere, ma non giustificato dai dati reali del fenomeno. C’è dunque un elemento artificiale nella scelta di cavalcare questo allarme: e c’è molto di ideologico nella decisione di riconfigurare il sociale esclusivamente attraverso il penale, come se non esistesse il politico, cioè lo spazio d’intervento dentro la comunità civile. Quasi che il governo non sapesse agire sugli elementi di disgregazione e ricucitura delle città italiane e si affidasse soltanto alla repressione, delegando la gestione pratica del problema ai magistrati e ai poliziotti, armandoli anche fuori dall’orario e dai compiti di servizio.
Gli studiosi del diritto spiegano che la storia della pena “è in realtà la storia di una continua abolizione”, cioè di una progressiva sottrazione: dunque il contrario dell’accumulo sanzionatorio previsto dal governo. E la concezione della pena, da sempre, rivela la natura dello Stato. Un ordinamento laico usa come misura del reato il danno fatto al singolo e dunque alla nazione, e di conseguenza considera sempre il principio di proporzionalità, per cui il costo della pena deve essere bilanciato con il costo del danno sociale: e in ogni caso la pena è inflitta non a chi è “socialmente pericoloso”, ma a chi ha messo in atto azioni socialmente pericolose, individuate specificamente dalla legge. Qui sembra emergere invece l’individuazione di una sottoclasse segnalata dal governo alle forze dell’ordine e alla magistratura come deviante, con particolare attenzione a chi protesta prendendo parte a blocchi del traffico e a “sommosse”, nelle strade, nelle carceri e nei centri di raccolta per stranieri. Le figure a cui si fa riferimento sono quelle che abitano il sottosuolo della nostra società: migranti, accattoni, detenuti, accomunati nel girone infernale della microcriminalità.
Naturalmente il problema dei piccoli reati quotidiani esiste, e l’opinione pubblica avverte la nuova insicurezza delle città. Ma presentarlo come causa e non come effetto della disarticolazione del sociale è un inganno, che ingigantisce il fenomeno e di conseguenza incrementa la paura. Proprio perché è “micro” la delinquenza spicciola dei reati di strada inquieta il cittadino qualunque, indipendentemente dalla sua fortuna e dal suo reddito, lo trasforma in bersaglio potenziale. La politica è stata inventata per emancipare la popolazione dalla paura, con lo Stato che tutela l’ordine esercitando il monopolio della forza e la regola democratica che garantisce la convivenza nella libertà. Ma in Italia questo meccanismo si è bloccato. Con l’angoscia che nasce dai due fronti aperti in Ucraina e in Medio Oriente e dalla percezione di un mondo fuori controllo, il cittadino si sente personalmente esposto, non più coperto dal tetto della politica, sopravanzata e resa inefficace dalla portata inarrivabile delle crisi che lo circondano. Questo sentimento di vulnerabilità riduce la sua autonomia, rendendolo gregario del senso comune dominante, e inconsapevolmente bisognoso di protezione. Se all’eco della nuova paura del mondo si aggiunge la falsa credenza di un’emergenza di microcriminalità che investe il suo universo domestico, il cerchio si chiude davvero: isolando l’individuo dentro una solitudine urbana scambiata per l’unica isola di sicurezza ormai possibile, in una visione intimorita del futuro, annichilito dal nuovo egoismo del welfare, dalla moderna gelosia del lavoro.
Questa società rattrappita che non produce speranza, irrigidisce anche il suo rapporto con il potere, a cui non chiede più politica, accontentandosi di misure esemplari. E la risposta della destra arriva: pene, condanna, carcere, pugno duro, mano libera alle polizie, armi, tutto il corredo del clima emergenziale che crea il bisogno dell’uomo forte. È il modello del nulla populista che vuole proibire più che liberare, purificare il corpo della nazione più che governare, indirizzando il fascio di paure contro il migrante, eterno bersaglio simbolico, concorrente e pretendente del nostro spazio fisico e concettuale, ospite clandestino da bandire perché si è spezzato ogni vincolo residuo tra noi e il destino abusivo degli “altri”. Quanto al nostro destino indigeno, il suo percorso e il suo esito dipendono dalla nostra capacità di scegliere e di distinguere: se vogliamo vivere nel 2023, col suo deposito di storia, o se accettiamo di iscriverci all’Anno Zero, senza passato e col presente troppo spaventato per progettare un futuro.