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di Maurizio Giacobbe

Micropolis, 14 gennaio 2024

Il comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n°59 del 16 novembre 2023 fa riferimento all’approvazione di tre disegni di legge in materia di sicurezza, difesa e soccorso pubblico. Uno degli aspetti più rilevanti di quello che è stato definito dalla stampa “pacchetto sicurezza” riguarda provvedimenti che prefigurano un differente assetto del sistema penitenziario. Nell’iter legislativo che seguirà, con ogni probabilità alcune norme passeranno in forma attenuata nei loro effetti o non passeranno affatto, resta però evidente che il quadro di riferimento per una revisione del sistema penitenziario si basa, per la destra sovranista e neofascista, sull’introduzione di nuovi reati, sull’aumento delle pene, sulla restrizione dei diritti, su imposizioni arbitrarie, con l’obiettivo di generare nella comunità dei ristretti un’umiliante subordinazione, la perdita di dignità, e in ultima analisi produrre malessere e nuova insicurezza.

Per Stefano Anastasia - noto ai lettori per essere stato Garante dei diritti dei detenuti nella nostra regione oltre che cofondatore dell’associazione Antigone e docente di Filosofia e sociologia del diritto presso Unipg - tutto quello che sta scritto in questo disegno di legge è una rassicurazione ai referenti sociali della destra in materia di sicurezza, che sono le organizzazioni sindacali di polizia più ancora che le stesse forze di polizia.

L’analisi dei comportamenti sociali, lo studio dei regimi carcerari, la considerazione degli effetti delle politiche securitarie dimostrano che le strette autoritarie, la pressione normativa, l’aumento delle pene al fine di deterrenza sono provvedimenti da sempre inefficaci allo scopo che dichiarano di prefiggersi, cioè garantire la sicurezza del cittadino. Essi anzi suscitano sentimenti di insofferenza e rivolta, perché mirano a comprimere i diritti sanciti dalla Costituzione, per il nostro governo un inciampo di cui liberarsi per dispiegare il suo progetto di società classista, razzista, patriarcale, omofoba, antistorica, nostalgica del fascismo e non solo.

Evidentemente non è la sicurezza del cittadino ciò che interessa la compagine governativa ma la possibilità di far pagare la percezione della sicurezza con la cattiva moneta della limitazione delle libertà e dei diritti, primo fra tutti quello al dissenso e alla disobbedienza civile. Semmai ciò che la interessa è la sicurezza delle élite e la loro protezione dai ‘pericoli’ costituiti dalla marginalità sociale, da tenere il più distante possibile dal mondo patinato dei poteri economici e politici e dalle sacche del privilegio. Su questo binario si sono mossi i governi degli ultimi trenta anni, e massimamente il governo in carica, che fin dalle prime battute ha voluto dare il segno di una svolta involutiva, colpendo le fasce deboli (migranti, working poor, percettori del reddito di cittadinanza, ecc.) e provvedendo ad ampliare il ruolo delle carceri come discarica sociale.

Che cosa invece debba intendersi per sicurezza, e con quali strumenti la si possa perseguire, lo afferma con chiarezza il primo dei sei punti con cui l’associazione Antigone si oppone al pacchetto governativo: “La sicurezza è una cosa seria e non può essere declinata solo in termini di proibizioni e punizioni. La sicurezza si conquista con inclusione lavorativa e reddito, o‑ erta generalizzata di salute fisica e psichica, città aperte e a disposizione anche nelle ore notturne di donne e uomini, solidarietà sociale verso le fasce più bisognose della popolazione. La sicurezza è prima di tutto sicurezza sociale, lavorativa, umana. Il pacchetto sicurezza del Governo, che fa seguito alle norme già approvate su rave parties, minori e migranti, è una forma di strumentalizzazione delle paure delle persone”.

Ma vediamo per punti in cosa consiste questo pacchetto, e quale visione della società vi sia dietro. Più poteri alle forze dell’ordine Innanzi tutto un rafforzamento dei poteri delle forze dell’ordine attraverso un aggravamento della pena per i reati di violenza, minaccia o resistenza ad agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria e la concessione agli agenti di pubblica sicurezza, già autorizzati al porto di un’arma per servizio, di detenere un’arma da fuoco privata, diversa da quella di ordinanza, senza ulteriore licenza. “È un provvedimento che rischia di avere conseguenze gravi. L’unico modo per limitare le morti violente consiste nell’evitare che ci siano armi in giro - afferma Anastasia - si tratta una forma di americanizzazione limitata alle forze dell’ordine (si parla comunque di circa 300 mila persone)”.

La vita nelle carceri - La nota più stonata è cosa si deve intendere, e punire, come rivolta. Paradossalmente per parlare di rivolta sono sufficienti la disobbedienza a ordini della polizia penitenziaria o il tentativo di evasione. Qui la questione si fa grottesca perché una tentata evasione è per definizione un’evasione non riuscita e pensare di punirla come rivolta contraddice al principio per il quale non si può essere puniti due volte e per due delitti diversi a causa della stessa condotta. Se abbiamo in mente le immagini o i resoconti delle rivolte degli anni 70 e 80, coi detenuti sui tetti degli istituti di pena, con i materassi bruciati nelle celle, con gli agenti presi come ostaggi siamo molto lontani dalla realtà che si prefigura.

“La previsione del reato penale di rivolta in carcere - ricorda Anastasia - diventerebbe applicabile anche al caso di 3 persone per resistenza passiva, quindi un’attività assolutamente non violenta: il caso tipico sono i detenuti che si rifiutano di rientrare in cella all’orario della loro chiusura oppure si rifiutano di tornare dall’aria perché stanno protestando, per esempio, perché non funziona il riscaldamento”.

La pena è da 2 a 8 anni per chi la organizza e da 1 a 5 anni per chi vi partecipa. Un detenuto entrato in carcere per scontare qualche mese per un furto semplice, coinvolto in una protesta o in una disobbedienza del genere, ci potrebbe restare per quasi un decennio, senza poter avere accesso ai benefici penitenziari, in quanto la rivolta viene parificata ai delitti di mafia e terrorismo. Il governo, insomma, ha deciso di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale, ricollegandosi al regolamento fascista del 1931.

Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà una minacciosa arma sempre carica puntata contro tutta la popolazione detenuta. Ci sono poi norme riconducibili alle campagne elettorali della destra, come la carcerabilità della donna incinta, su cui ha fatto campagna Salvini contro le borseggiatrici milanesi in metropolitana. Questo riguarda solo le donne che devono andare in esecuzione penale e che avevano la sospensione obbligatoria se incinte o madri, fino a un anno di pena. Per la custodia cautelare esisteva già la possibilità dell’esecuzione in carcere per la donna incinta in casi di particolare gravità.

L’estensione odierna è per le donne che sono già state condannate. Questa è una norma che stava già nel codice Rocco, in epoca fascista. Una norma che sollecita la convinzione (errata) che vi siano zone di impunità ed è scritta espressamente contro le giovani donne Rom. Le già citate norme a tutela dei poliziotti che va propagandando Delmastro in giro per le carceri italiane (l’inasprimento delle pene per resistenza a pubblico ufficiale se fa parte delle forze dell’ordine) sono legate all’ambiente penitenziario per il clima di conflittualità che il governo sta alimentando: “ci sono una serie di cose che loro hanno fatto, come il rientro in carcere dei detenuti in semilibertà usciti per alleggerire il sovraffollamento in tempo di pandemia o come la revoca delle telefonate straordinarie (anch’esse attivate in tempo di covid), o la circolare sulla media sicurezza che obbliga i detenuti a restare chiusi in stanza se non vanno a fare la socialità, che surriscaldano il clima in carcere, di cui i detenuti subiscono le conseguenze penali se succede qualche casino, che io credo sia inevitabile.

Ci sarà chi continuerà, per questa via, a caricarsi di nuovi reati e a perdere la prospettiva dell’uscita, e la gestione di queste persone diventerà sempre più difficile. Il sistema penitenziario italiano dopo gli anni 70 e i primi 80, è stato pacificato con la prospettiva della liberazione anticipata per buon comportamento e questo è andato avanti fino alle rivolte per il covid, ma quelle avevano una ragione contingente. Ora il rischio è che diventi uno stato di tensione permanente”.

Un bavaglio per frenare le lotte sociali Il decreto introduce una nuova fattispecie di reato per contrastare le occupazioni abusive, che prevede una pena compresa tra 2 e 7 anni di reclusione per chi, con violenza o minaccia, detiene senza titolo un immobile altrui o impedisce il rientro nell’immobile del legittimo proprietario o conduttore.

Dagli anni 70 le lotte per il diritto alla casa trovano concretezza nell’occupazione degli immobili sfitti, spesso appartenenti a enti o a società immobiliari che speculano sul loro abbandono (mancato utilizzo e conseguente degrado) per rendere possibili impieghi diversi da quello abitativo o trasformazioni anche radicali della proprietà. Le nuove norme prevedono poi la possibilità di intervenire con celerità nello sgombero degli immobili occupati anche per intervento diretto e immediato delle forze di polizia che raccolgono la denuncia, salvo successiva convalida del giudice.

In direzione analoga, cioè per tagliare le gambe alla protesta su temi di rilevanza sociale, va anche la norma contro i blocchi stradali, che diventerebbero reato nel momento in cui risultassero particolarmente allarmanti, sia per la presenza di più persone, sia per essere stati promossi e organizzati preventivamente. Fino ad oggi i blocchi sono stati puniti con una sanzione amministrativa.