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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 5 dicembre 2023

Ma esiste il “carcere degli innocenti”? No, colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio. Due giorni fa Marco Travaglio, emulando uno dei suoi maestri in toga, Piercamillo Davigo, ha scritto che “si può essere assolti anche da colpevoli”. Perché, “in base alla convenzione chiamata giustizia, si può solo dire che non sono stati condannati”. Sta parlando del numero enorme di errori giudiziari e carcerazioni ingiuste che ogni anno costa allo Stato, che pure li risarcisce solo in minima parte, cifre che si aggirano sui quaranta milioni di euro. E all’esercito di persone, 547 nel 2022, che, essendo state vittime della “forza” dello Stato, hanno ricevuto una riparazione in denaro per un totale di 37 milioni e 300.000 euro.

Una goccia nel mare, le ingiustizie subite in realtà sono molte di più, possiamo tranquillamente moltiplicare per dieci quei cinquecento per avere la misura dell’ingiustizia italiana di ogni anno. E far toccare con mano agli increduli il fatto che, fino a quando la Cassazione, un anno fa, con la sentenza 8616 della quarta sezione penale, non ha dato una svolta a una violenza che si sommava all’ingiustizia, venivano respinte le richieste di ristoro se l’imputato nel primo interrogatorio si era avvalso della facoltà di non rispondere.

Il diritto al silenzio era considerato colpa. Ne ha parlato alla Camera il ministro Guido Crosetto, citando le ingiustizie dell’ultimo trentennio e “i 30.000 innocenti in manette”. Innocenti? Macché, dice Marcolino, solo assolti, gente che probabilmente l’ha fatta franca. Ha orecchiato quel che l’ex pm Davigo aveva riferito a un solo processo, ma che è meglio generalizzare, giusto perché non ci si illuda del fatto che si possa davvero amministrare giustizia, che è certamente una “convenzione”, ma che imporrebbe una certa osservanza delle regole, chiunque le abbia fissate, dai costituenti in poi.

Se qualcuno, il pm o il giudice o uno dei tre del tribunale che condannò Enzo Tortora in primo grado, avesse preso il telefono e chiamato quel signor Tortona il cui numero compariva nell’agendina di un camorrista, forse la storia processuale italiana sarebbe stata diversa. Ma quel numero non fu mai chiamato. E se ogni tanto non intervenissero le corti d’appello a raddrizzare errori ed entusiasmi pervicaci dell’accusa o la Cassazione a fissare regole, i tanti “casi Tortora” resterebbero chiusi in qualche cassetto. E, dal momento che non esiste, nonostante il famoso referendum, una seria legge sulla responsabilità civile dei magistrati, e per quella disciplinare vale la regola del 99 per cento, tanti sono i casi di archiviazione, i cittadini che subiscono quella “forza” dello Stato che si chiama ingiustizia, sono in balia della sorte. Che poi in certi processi al sud e troppo spesso nei confronti di esponenti politici o pubblici amministratori ha sempre il sapore della pervicacia con cui si insegue il malcapitato fino all’ultimo grado di giudizio. Anche quando si dovrebbe aver capito di avere quanto meno preso un abbaglio. Come nel caso del signor Tortona.

Proviamo per una volta a giocare con il paradosso. Supponiamo che un domani Marco Travaglio possa entrare nelle vesti dell’imprenditore Alfonso Annunziata, oggi ottantenne, assolto pochi giorni fa (il fatto non sussiste) dalla corte d’appello di Reggio Calabria dall’accusa di essere un mafioso dopo che gli ultimi anni della sua vita li ha passati così suddivisi, tre in carcere, due ai domiciliari, un patrimonio del valore di 200 milioni di euro sequestrato e una condanna di primo grado a 12 anni per associazione mafiosa. Una vita distrutta.

Annunziata era una vittima della ‘ndrangheta in realtà, ma secondo l’accusa a un certo punto ne era diventato complice. Ora è libero, assolto, e reintegrato nel suo patrimonio che i giudici gli hanno restituito. Che cosa si aspetta oggi dallo Stato il signor Travaglio- Annunziata? Chiudiamo un attimo gli occhi e immaginiamo una parola grande grande, riparazione. Materiale e morale, e qualcuno che gli chieda scusa, se pur con sette anni di ritardo. Quale è invece l’alternativa più probabile, quella dell’ingiustizia permanente? Che la procura generale di Reggio, che aveva chiesto la conferma alla condanna di 12 anni, si avventuri fino alla Cassazione, giusto per non smentire se stessa. E che il giorno dopo un direttore di quotidiano, parafrasando un amico ex pm, scriva che Travaglio-Annunziata era stato assolto, ma che questo non significava fosse innocente. Colpevole oltre ogni ragionevole dubbio.