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di Maurizio Braucci

Il Manifesto, 1 settembre 2023

Trovo ipocrita che si parli adesso del Parco Verde di Caivano come di un luogo dell’orrore quando negli anni passati è già stato teatro di numerosi episodi di grande crudeltà, specie verso donne e bambini. Ma la speranza che la sofferenza di chi ci abita (non quella delle famiglie camorristiche o dei politici che ci vanno per nutrirsi di voti) si possa almeno ridurre, mi fa accettare persino la visita in quel quartiere di Giorgia Meloni.

Certo, mi dico, al di là del suo ruolo istituzionale, è strano pensare a come il taglio del reddito di cittadinanza, le energie e la propaganda spese contro i migranti anziché contro la lotta alla povertà, le manovre finanziarie che creano agevolazioni per i più ricchi con la motivazione di far ripartire l’economia, insieme alla riduzione delle risorse per il Sud attraverso le autonomie differenziate, come queste politiche possano essere coerenti con la sua visita al Parco Verde.

Il nome Parco Verde fu inventato a metà degli Anni 80 dalle famiglie trasferite qui a causa del grande terremoto di pochi anni prima, cittadini che si organizzarono in comitati di gestione, distrutti poi dall’intervento dei partiti che erano interessati solo al bacino di voti e che crearono divisioni (e corruzione) tra loro. Al Parco Verde (ma cosa dire del vicino Rione Iacp?), le cattive intenzioni hanno sempre trovano supporto e terreno fertile, quelle buone invece se la sono vista da sole e contro mille ostacoli. La piccola borghesia che lo abita vi racconterà che gli autobus ci passano di rado e che per ogni servizio pubblico devi andare altrove, tanto che per loro è diventata solo una zona dormitorio dove tornare la sera. Le scuole sono da sempre sottodotate, i loro progetti di inclusione ostacolati da mille cavilli burocratici, tanti insegnati accettano di venirci giusto il tempo per ottenere una nuova collocazione perché qui non ci vogliono stare. La buona volontà di alcuni non è mai mancata, ma ha prevalso la collusione tra la politica locale e la criminalità arricchita dagli introiti dello spaccio che dà lavoro ai più miseri. Se il Parco Verde, e altre zone simili in Italia, sono così è perché qualcuno ne trae vantaggio, questo nessuno me lo toglie dalla testa.

Mi ha colpito che il prefetto di Napoli ha citato a Meloni il “modello Scampia” come riferimento per il quartiere di Caivano che la premier ha detto di voler “bonificare”. Quel supposto modello attuato nella periferia nord nacque all’indomani della guerra di camorra del 2005 ed effettivamente ha portato, fino a un certo punto, dei grossi risultati. Cosa lo ha caratterizzato? La riduzione del controllo criminale del potente clan Di Lauro, sterminato dalla faida oltre che dagli arresti, l’attenzione mediatica e l’analisi intellettuale costante, la presenza di un centro sociale come il Gridas che da 40 anni forma degli operatori sul campo, l’aver portato costantemente il resto della città in quella periferia per partecipare a iniziative socioculturali volute da associazioni e parrocchie del quartiere, la creazione di progetti di qualità che durano da quasi vent’anni rivolti agli adolescenti, il supporto istituzionale (ora purtroppo calato) a tutto questo.

A Scampia tutti quelli dotati di buona volontà, soggetti anche molto diversi tra loro, avevano un obiettivo comune e lo hanno mandato avanti innanzitutto dal basso, ognuno a modo proprio, mossi da un grande ideale di cambiamento. Anche al Parco Verde serve questo, chi opera in questo quartiere sa già cosa fare, bisogna agevolare e potenziare le loro attività, creare rete, riaprire gli spazi abbandonati (l’auditorium ad esempio), portarci il resto della città e far partecipare la gente che lì oggi vive nel terrore, trasmettendo ottimismo e creando opportunità soprattutto per le generazioni più giovani. Tutto questo sarebbe il minimo, ma resterebbero ancora le questioni della grande disoccupazione giovanile e della povertà diffusa, flagelli che sono come benzina su un fuoco che già brucia.