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di Mauro Gambetti

Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2023

“A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato” (1 Cor 4,3-4). Mi hanno sempre colpito queste espressioni dell’apostolo Paolo, che trovo efficaci ed esistenzialmente vere.

L’esercizio della giustizia, ancor prima che dalla assennatezza delle leggi, dipende dalla qualità dei giudizi che siamo in grado di formulare. In tal senso, una buona valutazione dipende fondamentalmente dalla conoscenza dei fatti e dalla finalità dell’azione giudiziale. Queste due condizioni sono dirimenti e, anche solo limitandoci ai dati relativi alla pratica della giustizia in Italia, pare che in diversi casi non siano soddisfatte.

Come padre Occhetta saggiamente annota nel suo “Le radici della giustizia”, sono molti - dal giustizialismo che permea l’opinione pubblica globale alla qualità delle leggi, dalle lungaggini della macchina giudiziaria allo stato di salute dei sistemi carcerari - i segnali inequivocabili di un modello ormai in crisi. Come gestire le risorse del pianeta, come creare condizioni di sviluppo alla portata di tutti i popoli, come abbandonare un modello sociale che grava con disparità e violenze sulla metà femminile del mondo e far fiorire la pari dignità di tutte le persone.

Come garantire questa dignità in tutte le condizioni e i tempi della vita, specie quelli di sofferenza e di disagio. Come togliere i bambini e i giovani dall’ultimo gradino della scala sociale, dove il mondo adulto li ha relegati, e restituire loro il diritto di partecipare ai processi decisionali che tracciano il futuro. Come rendere efficiente e umano il sistema giudiziario, perché la distribuzione della giustizia non sia l’espressione di una vendetta di Stato ma la via pratica che permette a tutta la collettività, a cominciare dai rei, di riparare il male inferto alle vittime.Come far sì che l’esperienza del carcere sia un laboratorio di cittadinanza. Come riformare le istituzioni perché tornino a rappresentare e riconnettere esperienze e territori, dalle piccole comunità alla comunità internazionale. Sono tutte questioni attuali, che hanno a che fare con la giustizia personale, sociale, politica. Cercare di dare una risposta chiede ai soggetti coinvolti nella definizione e nell’esercizio della giustizia un’appropriazione delle proprie dinamiche conoscitive. A tal proposito, può essere utile un breve affondo sul giudizio, che propongo sulla scorta dell’itinerario tracciato dal grande filosofo canadese Bemard Lonergan nel suo Insight.

Per raggiungere una conoscenza sufficiente alla enunciazione di un giudizio sono necessari diversi atti completi di significato, che conducano dal livello esperienziale della registrazione dei dati al livello intellettuale della loro comprensione, per poi giungere al livello razionale in cui si giudicano le realizzazioni che emergono dai precedenti stadi.

Quest’ultimo passaggio è decisivo ai fini della giustizia. Se non sono soddisfatte tutte le condizioni affinché le ipotesi formulate offrano la spiegazione dei legami tra gli avvenimenti, non è possibile raggiungere un carattere di assolutezza che garantisca la corretta interpretazione della realtà. Inoltre, qualora si giunga a una qualche assolutezza di giudizio, rimane il compito di valutare le responsabilità - oggettive e soggettive - per stabilire il da farsi.

Si può pertanto comprendere l’attualità dell’espressione paolina: io non giudico neppure me stesso. Il raggiungimento della conoscenza oggettiva è un lungo percorso che non potrà mai dirsi del tutto completato, in particolare quando concerne l’agire umano e le ragioni che lo hanno determinato. C’è in gioco la libertà dell’uomo, cifra insondabile della dignità della persona e della sua capacità di decidersi per il bene o per il male. Se il primo obiettivo da conseguire concerne la conoscenza oggettiva dei dati e delle loro cause, l’orizzonte verso il quale tendere riguarda l’emergere alla coscienza della domanda decisiva per l’esercizio della responsabilità: “Cosa devo fare?”.

E uno stadio determinante, morale, che si persegue tramite l’intensificazione della presenza a se stessi. Senza una soggettività autentica non si dà conoscenza oggettiva, ma senza una conoscenza oggettiva non si dà vita autentica, ovvero segnata dall’attuazione del bene. A questo livello, in cui il politico scrive una legge, l’avvocato disegna la sua arringa e il giudice emette la sentenza, si giocano le sorti della giustizia, le sorti della vita, propria e altrui. La giustizia è completa solo se ha come fine il bene capitale di tutte le persone, dei rei come dei giusti, cioè la salvaguardia della dignità personale nelle relazioni d’amore reciproco che siamo chiamati a costruire. D’altra parte, ritengo indispensabile cercare l’umiltà insieme alla giustizia.

Questa disposizione dell’anima è imprescindibile per poter aspirare all’esercizio virtuoso della responsabilità, perché senza umiltà è minata alle radici l’abilità umana del conoscere e quindi dell’amare. Una declinazione di questi princìpi la si può vedere applicata al macrotema del conflitto. Nel mondo odierno, l’idea prevalente di giustizia è caratterizzata dagli schemi della competizione e del potere: è giusto che vinca il migliore, è giusto che il più forte prevalga, è giusto che chi sbaglia “paghi”.

In fin dei conti, siamo disposti a normalizzare le ingiustizie che lacerano il quotidiano pur di salvare un disegno di convivenza che ci fa competere anziché cooperare. Invero, tale idea di giustizia è fallace e inefficace, e non riesce a dare soddisfazione agli aneliti dei cuori. Come ha lasciato intendere padre Occhetta, le domande di giustizia chiedono fraternità lì dove regna il conflitto. La fraternità è ontologicamente superiore al conflitto. Se è vero che nei fatti essa può esserne umiliata, in tutte le possibili forme di violazione che il conflitto realizza nella storia, non può però mai essere negata una volta per tutte.

Il fratello ucciso, insegna la vicenda di Caino e Abele, è privato della vita ma, anche morto, non smette di essere fratello. La soluzione ai conflitti non sta nell’ergersi a giustizieri, ma nel nutrire la volontà con il desiderio di riconciliazione e decidendo di muovere i propri passi su vie di pace. Né la giustizia può fiorire dalla restituzione del male ricevuto o da una solitaria lotta prometeica che, per quanto nobile, risulterà sempre vana: la verità è che da soli non ce la facciamo, e l’umiltà è la prima lezione che la fraternità ha da offrirci. Chiunque abbia in cuore di praticare la riconciliazione e di cooperare al di sopra del conflitto può trovare nell’enciclica Fratelli tutti un vero vademecum spirituale, che papa Francesco ha consegnato al mondo.

A noi spetta far diventare cultura la fraternità e scegliere la cooperazione come metodo affinché le relazioni che ne nascono possano strutturarsi e abbiano reale possibilità di incidere nella storia del mondo. Occorre rifiutare il dogma della competizione e scegliere di cooperare, accettando che nella prospettiva altrui possa risiedere una promessa di speranza per risolvere insieme i conflitti e le crisi dei nostri giorni.

*Cardinale, vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano e presidente della Fondazione Fratelli tutti