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di Sandro De Riccardis

La Repubblica, 1 agosto 2022

Il fratello era stato ucciso con un colpo di pistola dall’assessore leghista che lo pedinava: “Mi ha fatto male pensare alla gente che filma e non interviene. Non hanno visto una persona ma un immigrato debole e malato preso di mira perché considerato di nessun valore. A sua moglie dico di non mollare nel chiedere giustizia”.

“Razzismo è pensare che uno straniero non valga nulla, che la sua vita non interessi a nessuno. E invece siamo persone come tutte le altre, ognuno di noi ha una famiglia, dei legami, amiamo e siamo amati come tutti. Se vendono fazzoletti ai bordi della strada, se chiedono l’elemosina, se hanno problemi mentali come li aveva mio fratello Youns, allora nel migliore dei casi vengono ignorati. Non sono considerati esseri umani. Mio fratello ha lasciato due figli, dei fratelli, i genitori. Ma purtroppo agli occhi degli italiani restano soltanto stranieri”. Bahija El Boussettaoui ha letto dalla Francia, dove si è trasferita dopo ventiquattro anni di vita in Italia, di quanto accaduto a Civitanova Marche.

“Mi fa male il cuore”, dice dopo aver visto le immagini dell’aggressione all’ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu. La sua mente torna in un attimo a Voghera, alla notte del 20 luglio 2021, quando un colpo di pistola sparato dall’allora assessore leghista alla Sicurezza Massimo Adriatici mise fine alla vita di suo fratello.

Bahija, cosa vede in quelle immagini?

“Ho visto la stessa malattia dell’Italia, il razzismo. Ho visto lo stesso razzismo che c’è stato nella vicenda di mio fratello. Mi ha provocato tanta rabbia vedere l’aggressore sopra quell’uomo indifeso, che non si ferma di fronte ai lamenti finché non lo ha ammazzato. Mi chiedo cos’abbiano le persone al posto del cuore. Mi ha fatto male pensare alla gente che filma e non interviene”.

Perché secondo lei?

“A Civitanova non c’erano armi, non c’era un coltello, tutto succede in pochi minuti. Qualcuno poteva salvare quell’uomo invece di guardare. Invece uccidere un immigrato in Italia è diventato uno spettacolo: la gente si ferma, guarda e va via. Non siamo considerate persone, siamo peggio degli animali, perché vedere morire così un cane o un gatto provoca pena, per uno straniero resta solo l’indifferenza”.

Lei vive da molti anni in Francia. Si sente più accettata?

“In Francia è più facile vivere da immigrata, non vedo tanto razzismo. La legge è uguale per tutti. In Italia no. Io ho la cittadinanza italiana, ho studiato e mi sono diplomata da voi, ma ogni volta che cercavo lavoro mi veniva negato perché ero marocchina. In Francia, se fai domanda e c’è un posto di lavoro, hai le stesse opportunità di un cittadino francese”.

Dopo i fatti di Voghera ha sentito la vicinanza degli italiani?

“Ho avuto tanta solidarietà, ma poca da persone italiane. Molta di più da stranieri di Voghera e di altre città. La morte di mio fratello ha stravolto la mia vita e mi ha fatto vedere tante cose in modo diverso. Dopo quella sera, sono rientrata subito dalla Francia e per i primi giorni sono rimasta incredula. Non era questa l’Italia che conoscevo io, ho ritrovato una foresta dove il più forte mangia il più debole. Ero scioccata per quello che stava succedendo alla mia famiglia, e lo sono ancora oggi”.

Per qualcuno è stata solo una lite, il razzismo non c’entra...

“Invece c’entra. Mio fratello stava male, zoppicava, perché devi pedinarlo, provocarlo e poi sparare? A Civitanova Marche è successa la stessa cosa: un immigrato debole e malato preso di mira perché considerato di nessun valore”.

Dopo l’omicidio di Civitanova Marche, c’è stata una manifestazione cui hanno partecipato pochissimi italiani.

“Anche al primo presidio dopo la morte di Youns, a Voghera, erano pochi. A quelli successivi c’era tanta paura, l’amministrazione leghista ha chiuso i bar e ci ha imprigionati nella piazza tra le transenne. Avevamo bisogno di acqua e non sapevamo dove comprarla. Anche i fiori che portavamo sul luogo della sparatoria venivano portati via, come se la morte di mio fratello dovesse essere cancellata”.

Come lei, anche la moglie di Alika pretende giustizia...

“Le dico di non mollare. Sarà davvero dura, noi stiamo ancora lottando. Vorrei avere un suo contatto e poterla incontrare, al mio rientro dalla Francia. Vorrei aiutarla, potremmo magari organizzare una manifestazione insieme. Stiamo combattendo per gli stessi valori, per gli stessi diritti. Non c’è persona che possa capirla meglio di me, e non c’è nessuno che possa capire me meglio di lei”.

Anche la sua famiglia sta aspettando che emerga tutta la verità nei fatti che hanno portato alla morte di Youns...

“Stiamo aspettando che vengano chiuse le indagini. Sono fiduciosa per il grande lavoro fatto dai miei avvocati, Debora Piazza e Marco Romagnoli, e perché c’è un nuovo capo alla procura di Pavia. All’inizio ci sono state tante lacune nell’indagine, ora spero che tutti i punti oscuri dell’inchiesta vengano chiariti. Sono sicura che avremo giustizia”.