di Donatella Stasio
La Stampa, 21 ottobre 2024
Un tempo la struttura di Napoli era considerata il fiore all’occhiello del sistema di giustizia minorile. Dopo il decreto Caivano si è trasformata in un campo di battaglia sempre più sovraffollato. Sono trascorsi sei anni dalla prima volta, e quasi tre dall’ultima. Negli occhi ci sono ancora Elsy, Marta, Sonia, Mirko, Peppe, ragazze e ragazzi che hanno camminato sui pezzi di vetro, direbbe De Gregori, e superato sfide difficili. All’arrivo, il sole è caldo. Ogni cosa è illuminata, non solo i ricordi. Ma ecco che, dopo due ore, una cappa di piombo scende sulle nostre teste. Il cielo diventa minaccioso, si alza un vento forte, e piccoli mulinelli trascinano, insieme a rami e foglie, anche piatti e bicchieri di plastica, lattine vuote, pezzi di carta… rifiuti, che ogni giorno, per protesta, piovono dalle finestre delle stanze dei ragazzi, piene fino all’ultimo metro dei tre indicati dai giudici dei diritti dell’uomo.
Nello spazio dove prima respiravano 55 giovani, ora ne sono stipati 76, per lo più campani, quasi tutti di 16, 17 anni, ma vai a sapere quanti ne hanno davvero gli stranieri trasferiti dal Nord, forse anche 30, se solo avessero uno straccio di documento. Per fare spazio, le ragazze sono state mandate in altri istituti, lontano da questo luogo operoso e benedetto dalla natura, visitato da presidenti della Repubblica, istituzioni, celebrità di ogni genere, che faceva dimenticare di stare in prigione mentre ormai è prigione come tutte le altre, con il tempo scandito dalla tensione, dalle tentate evasioni e dai tentati suicidi, dagli incendi e dalle risse, dove imporre l’uniforme ai già pochi poliziotti non serve né a farli rispettare di più né a convincerli a non abbandonare il campo, ma dove, pur nello sconforto, gli operatori continuano a credere nel mandato rieducativo affidato loro dalla Costituzione e perciò non hanno ancora gettato la spugna.
Benvenuti a Nisida, nell’anno 2024! Un tempo fiore all’occhiello del nostro sistema di giustizia minorile, invidiatoci dall’Europa per l’approccio educativo e non repressivo, e oggi simbolo del progressivo declino di quel sistema - 17 istituti per 516 posti, occupati da 569 ragazzi e ragazze: erano 392 nel 2022 - non per inadeguatezza o incapacità di chi vi ha dedicato una vita, ma per mera volontà politica.
C’è un prima e un dopo in questa storia. “Cambiamento” è una parola chiave dell’esecuzione penale, perché per la nostra Costituzione nessuno è perduto per sempre, ma oggi è diventata la parola chiave di una politica che sta riempendo a dismisura (anche) gli istituti penali minorili (Ipm), soprattutto di stranieri e di persone con disturbi psichiatrici, puntando su repressione e psicofarmaci, facendone un campo di battaglia dove tutti sono in guerra, l’uno contro l’altro, e dove sempre più spesso si muore o si fugge. Muoiono i detenuti e i poliziotti, fuggono gli uni e gli altri. “Seppellite quei ragazzi sotto litri di psicofarmaci e cumuli di altri anni di carcere” è il messaggio che, secondo l’associazione Antigone, il governo sta mandando, dal “decreto Caivano” al “Ddl sicurezza”.
Il primo segno del cambiamento è l’aumento degli stranieri, scaricati qui a Nisida dagli Istituti del Nord proprio come dei rifiuti. Eravamo abituati “allo” straniero, non “agli” stranieri di culture ed etnie diverse, osservano gli educatori. Ragazzi difficili, più dei “locali”. I quali, prima facevano gruppo in base ai quartieri di appartenenza (Forcella, Scampia ecc), mentre oggi si coalizzano contro gli stranieri “nemici”, a loro volta organizzati in gruppi di 8/10 persone contro gli italiani “razzisti”. E questo crea una continua tensione.
Eccoli nel campo di basket, rigorosamente distanti dagli italiani. Non riconoscono l’autorità. Con o senza uniforme, fa lo stesso. Anche qui il “cambiamento” si tocca con mano: la recente circolare ministeriale che ha imposto ai poliziotti di indossare la divisa nelle carceri minorili ha rotto la pluridecennale e virtuosa tradizione di “vestire a foggia civile”, ed è “l’ammissione - dice un educatore - dell’incapacità di affrontare una situazione di emergenza”. Questi ragazzi, quasi tutti arabi, hanno alle spalle una lunga esperienza migratoria, anche in Europa, che ha determinato una forte tendenza predatoria (le rapine superano di molto le violenze) per cui prendono tutto ciò che considerano utile, ma non per rimanere in Italia, dove non hanno nulla e nulla viene offerto loro. Spesso non hanno identità, famiglia, legami affettivi ma solo qualche “zio”: così chiamano gli amici incontrati lungo la strada.
I loro volti hanno sostituito quelli di Marta, che nel frattempo si è laureata in scienze dell’educazione ed è in semilibertà; di Sonia, che lavora come guida turistica; di Elsy, cameriera in un bar e a fine turno studentessa alla scuola serale. Chiedo di Pino, il ragazzo-padre che raccontava quanto fosse importante avere la casetta colorata dove “rotolarsi” con i figli, evitando così di farli crescere con le immagini del carcere: oggi la casetta è semiabbandonata e Pino ha chiesto di andare in un carcere per adulti, dove si è interrotto il percorso di ricostruzione della sua vita. Destino comune ai tutti quei giovani che, “grazie” al Dl Caivano, vengono più facilmente trasferiti nelle carceri per adulti (Antigone ne ha contati 123 nel 2024, contro gli 88 del 2023 e i 58 del 2022).
Oggi a Nisida ci sono solo un paio di ragazzi-padri: un italiano e un arabo, entrambi diciassettenni con due figli ciascuno. Come i loro compagni, non sanno che cos’è l’amore né potranno insegnarlo ai figli perché non sono stati educati a sillabare l’alfabeto emotivo e a familiarizzare con i sentimenti. Sono nati da mamme bambine, capaci di attenzioni solo ai bisogni materiali dei figli (immancabile la griffe su ogni capo di abbigliamento) ma incapaci di accudirli perché loro stesse hanno bisogno di accudimento, e a farsene carico sono proprio quei figli, un po’ padri e un po’ mariti. Confusi. Anche rispetto alla sessualità, sebbene siano molto esperti di sesso, che praticano “in modo articolato”.
Rino (nome di fantasia, come tutti gli altri) è l’unico dichiaratamente gay ma è convinto che molti suoi compagni lo siano senza esserne consapevoli. Diciassette anni, capelli raccolti in un codino che scopre un viso gentile, racconta di sé infilato nel camice nero da sous chef, guadagnato con caparbietà. Ci confida il suo sogno di fare il poliziotto (“Per una volta starei seduto nella macchina davanti, invece che dietro”, scherza), ma ha un dubbio che lo tormenta: una volta fuori dal carcere, la fedina penale tornerà subito pulita? Altrimenti non lo prendono in polizia. Fin quando ti resta addosso il marchio del pregiudicato? La riabilitazione, certo, ma forse una traccia resta per tutta la vita, riflette, proprio come i tatuaggi, che però, è vero, si possono cancellare, anche se fa male, male assai, forse troppo, “ma non così tanto - conclude in questo suo ragionare a voce alta - quanto il male fatto a me stesso e a mia madre”.
Il tutto esaurito, qui a Nisida, è stato micidiale anche per l’adesione alle attività. Sempre più ragazzi chiedono “di fare il detenuto, e basta”. D’altra parte, il carcere è diventato uno “sversatoio”, dicono gli educatori, una discarica dove vengono smaltiti i rifiuti della società, i marginali, i malati come Catello, 16 anni, arrivato con una dipendenza gravissima da qualunque sostanza, al punto da identificarsi con “la sostanza”. Chi deve prendersene cura? “Il carcere non ha questo compito né ha gli strumenti - dice il direttore Gianluca Guida, che a Nisida ha dedicato la vita - eppure è diventato il luogo del disagio psichico serio, non diagnosticato fuori e senza indicazioni terapeutiche, per cui l’unico approccio medico, dentro, è quello contenitivo. Sediamolo, neutralizziamolo”.
La Repubblica ha “il dovere di rimuovere gli ostacoli” che limitano la libertà e l’uguaglianza delle persone e ne impediscono il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale: lo dice la Costituzione e quelle parole - un impegno, una promessa - sono state scandite, con emozione, proprio dai ragazzi e dalle ragazze di Nisida ospiti della Corte costituzionale nel Natale 2018.
Quanta speranza in quelle voci. La stessa che leggo negli occhi di Enzo, mentre avvolto in una tuta bianca fa avanti e indietro nel campo di basket con un sorriso coraggioso, che guarda con fiducia al futuro, quando non sarà più “scostumato”. Non conosce paura questo sedicenne che salta e vince sui vetri, che ride e sorride, perché ferirsi non è possibile, morire meno che mai, suggeriscono i versi di una canzone. Enzo non la conosce, ma ascolta. Poi riprende a rappare: Nuje vulimme ‘na speranza. È Nisida la sua speranza, la sua ultima carta, la vita che stringe nella mano, e alla quale sembra dire: “ti prego, non lasciarmi ferito”.