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di Riccardo Noury

 

Corriere della Sera, 4 aprile 2020

 

Ieri Ciham Ali ha compiuto 23 e ha trascorso l'ennesimo compleanno in una delle congestionatissime carceri dell'Eritrea. All'angoscia di essere diventata grande in prigione si aggiunge la paura di morirci. Di Covid-19.

Ciham Ali è stata arrestata quando aveva 15 anni, alla fine del 2012, poco dopo che suo padre - all'epoca ministro dell'Informazione del governo del presidente Afewerki - decise di abbandonare l'incarico e andare in esilio. Lei non ha commesso alcun reato, se non quello - inesistente per il diritto internazionale - di "parentela", aggravato dalla circostanza che ha anche un passaporto statunitense: infatti è nata negli Usa ma è cresciuta in Eritrea.

Da quasi otto anni Ciham non vede un avvocato né incontra la famiglia, che non sa neanche dove si trovi. Nello "stato-prigione" del Corno d'Africa, come raccontiamo da anni, languono migliaia di detenuti politici, giornalisti, fedeli di religioni messe al bando. Come Ciham Ali, non sono mai stati processati e sono senza contatti col mondo esterno, alcuni ormai da 20 anni.

Le condizioni di prigionia sono così dure che Amnesty International le ha classificate tra i trattamenti crudeli, inumani e degradanti: le carceri sono sovraffollate, le forniture di acqua corrente, acqua potabile e cibo non scarse e i servizi igienico-sanitari insufficienti e inadeguati. Al 2 aprile, i casi ufficiali di coronavirus nel paese erano 22.