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di Antonello De Stefano


Il Riformista, 29 maggio 2020

 

Manfredi era uno dei componenti della Brigata 28 marzo che uccise il giornalista. La documentazione relativa al suo decesso in carcere è scomparsa, un giudice ha ammesso di aver manomesso le cartelle cliniche. Ma nessuno sembra voler cercare la verità. È la dimostrazione che della preziosa eredità del cronista del Corriere non abbiamo capito nulla.

Vi racconto la storia di Manfredi De Stefano (nome di battaglia Ippo) mio fratello, uno dei "sei" componenti della Brigata 28 marzo che si rese protagonista dell'uccisione di Walter Tobagi. Partiamo dal suo arresto.

Era il 3 ottobre 1980 quando nei pressi del Bar Stadio di Arona, gli uomini del Nucleo Antiterrorismo di Dalla Chiesa (tra di loro anche il Brigadiere Dario Covolo di cui parleremo più avanti) alle 20.35, con un'azione rimasta nella memoria della città come "spettacolare", catturano Manfredi e il sottoscritto.

Inizio da questo particolare per farvi notare che il famoso interrogatorio che ci tramanda la verità giuridica, dove Marco Barbone comincia la sua "spontanea ammissione di colpa", avviene il 4 ottobre 1980 alle 10.30 del mattino presso la caserma dei Carabinieri di Porta Magenta a Milano.

Salta subito all'occhio che l'arresto di Manfredi (e mio) avviene curiosamente il giorno prima della confessione di Barbone. E dire che il pentito non sa neanche come si chiama, nei verbali Barbone indica Manfredi con il nome di battaglia, Ippo, non fornisce le generalità e non dà alcuna indicazione sul luogo dove abita.

Ma gli uomini di Dalla Chiesa non hanno bisogno delle "dritte" del pentito, sanno benissimo dove abita Ippo. Sono appostati sotto casa sua da circa una settimana e aspettano soltanto il momento che lui faccia ritorno a casa per prelevarlo. Io ero lì, abitavo lì, e mi sono accorto degli strani movimenti che già da giorni avvenivano nel mio quartiere, tant'è che per paura che fossero fascisti pronti ad un'aggressione, avvisai tutti i compagni di stare attenti.

Erano anni difficili quelli. Risulta evidente che qualcosa non funziona nell'orologio della verità giuridica. Se Barbone parla soltanto il 4 ottobre 1980 con le autorità giudiziarie, com'è stato possibile che gli uomini di Dalla Chiesa si appostano per studiare i movimenti una settimana prima e poi arrestano Ippo il giorno prima della "spontanea confessione"?

Allora per capire cosa accadde, vi racconto di quella informativa datata 13 dicembre 1979 e di tutto il pandemonio che scoppiò, quando fu resa pubblica da Bettino Craxi il 27 maggio 1983, in pieno svolgimento del processo Rosso/Tobagi.

Vi anticipo che questa informativa redatta dal Brigadiere Dario Covolo (uomo di Dalla Chiesa), rappresenta un plausibile movente per l'eliminazione e il conseguente silenziamento di Ippo. Il gruppo di fuoco che quarant'anni fa entrò in azione in via Salaino a Milano, a dire il vero, dovrebbe (uso il condizionale perché non lo si può provare documentalmente) essere entrato in scena e quindi ben noto a chi indaga, addirittura sei mesi prima dell'omicidio.

Mi riferisco, appunto, alla sopracitata "informativa" che il brigadiere Dario Covolo (nome di copertura "Ciondolo") consegna ai suoi superiori il 13 dicembre 1979. Vero, in quel documento non troviamo i nomi di chi eseguirà il piano omicida, ma abbiamo testimonianze sufficienti per sostenere che quella non era l'unica esistente.

Ciondolo ne ha redatte molte altre, ed in quelle vi erano segnalati nomi e cognomi che l'infiltrato (e non confidente) Rocco Ricciardi (nome di copertura "il Postino") gli riferiva man mano che i loro incontri si svolgevano in assoluta segretezza. Su questa vicenda, sarò più puntuale ed esaustivo nel libro che sto scrivendo a quattro mani con il brigadiere Dario Covolo.

Il Colonnello Nicolò Bozzo, braccio destro del generale Dalla Chiesa, riferisce al giudice Guido Salvini che lui stesso ha visto il faldone contenente tutte le relazioni e che lo stesso era spesso almeno quattro/cinque dita e che al suo interno vi erano custodite almeno una cinquantina di informative con tanti nomi e circostanze. Quel faldone sparì nel nulla, non si è più ritrovato.

Il brigadiere Dario Covolo ha anche confermato la loro esistenza sotto giuramento ma la "verità giuridica" ha deciso di credere di più alla parola dell'infiltrato/pentito Rocco Ricciardi e non a quella di due servitori dello Stato, che non avevano nessuna ragione o tornaconto per mentire. Ricciardi ha invece incassato la libertà immediata con Barbone & C. alla lettura della sentenza. Corre l'obbligo di ricordare che "Ciondolo" chiese ripetutamente di poter avere un confronto in aula con il "Postino". Confronto che gli fu, inspiegabilmente, negato.

Perché? Perché non si trovano più le sue relazioni? Chi le ha fatte sparire? Saranno stati gli stessi che hanno procurato la morte, impunita, di Ippo perché testimone chiave di quell'informativa?

Sì, "testimone chiave", perché Ippo è la fonte delle informazioni che Ricciardi passa a Covolo. È Franzetti dei Reparti Comunisti d'Attacco che gira a Ricciardi le notizie che viene a sapere da Ippo. Tra i due c'è un legame di amicizia che risale a molto prima della scelta armata. Dopo aver raccolto le informazioni, le girava a Ricciardi non sapendo il gioco sporco dell'infiltrato.

Certo, Ricciardi e Franzetti negano, forti del fatto che il faldone di quattro/cinque dita non si trova più e Ippo è morto. Ma la storia non finisce qui e a distanza di 29 anni dall'omicidio Tobagi, la fi glia Benedetta fa una rivelazione che rafforza la tesi di un probabile "omicidio nell'omicidio".

È il luglio del 2009 quando irrompe una notizia a dir poco imbarazzante e molto grave. Benedetta Tobagi riferisce in pubblico e nel suo libro dedicato al padre, "Come mi batte forte il tuo cuore", di aver chiesto al Gip del processo Rosso/Tobagi se Manfredi De Stefano non fosse morto a causa delle percosse ricevute dai suoi compagni nel carcere di San Vittore a Milano.

La risposta del giudice è agghiacciante: ammette di aver manomesso le cartelle cliniche per occultare le vere cause della sua morte. Dichiarazione che non è mai stata smentita dallo stesso giudice Giorgio Caimmi e confermata da Benedetta Tobagi. A seguito di questa notizia richiesi immediatamente il diario clinico di mio fratello alle autorità competenti, tuttavia il Dap mi inviò documenti palesemente incompleti ed omissivi.

Nel diario clinico non veniva riportata l'aggressione subita a San Vittore, le prestazioni mediche e chirurgiche per curare un danno così grave. Stiamo parlando di una ferita nella zona temporale destra, profonda e suturata con ben 37 punti oltre a varie ecchimosi e lividi sparsi qua e là sul suo corpo. Di quanto riferisco sono testimone oculare perché lo incontrai più volte in carcere dopo l'aggressione.

Ho continuato a scrivere al Dap per avere altra documentazione ricevendo in cambio "nulla". A quel punto decisi di rivolgermi alla Procura della Repubblica di Udine (luogo della sua morte) e ricevo pronta risposta del Procuratore Capo Dr. Antonio De Nicolo che m'informa della scomparsa del procedimento 284/1984 aperto subito dopo la morte di Ippo e contenente tutta la documentazione relativa al suo decesso, compreso il referto autoptico.

Ancora oggi, a distanza di quarant'anni, la morte di Manfredi De Stefano, così come quella di Walter Tobagi, rimane avvolta nel dubbio e abbandonata all'oblio. Sono ancora numerose le tessere del mosaico che mancano e quel che rattrista è la scarsa volontà di cercarle e di rimetterle al proprio posto. Stiamo dimostrando di non aver capito la grande e preziosa eredità che ci ha lasciato Walter Tobagi e cioè, la tenacia, la costanza, il coraggio e il metodo nel ricercare a tutti i costi, la verità. Io, in suo omaggio, non smetterò di cercarla.