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di Francesco La Licata

La Stampa, 28 maggio 2023

Dopo i “nemici” Falcone e Borsellino, a Firenze Riina adotta la strategia politico-terroristica. Tra agende scomparse, documenti persi e testimoni incerti, la giustizia resta senza risposte. Trent’anni senza verità e, dunque, senza giustizia. Sarebbe un titolo perfetto per l’incredibile intreccio che ha macchiato la storia degli ultimi decenni della nostra Repubblica.

Una vicenda piena di ombre e misteri, ma anche popolata da fantasmi inafferrabili e da vittime innocenti che hanno lasciato parecchio sangue sul terreno. Ieri correva il trentesimo anniversario della strage di via dei Georgofili, a Firenze. Una tappa, forse la più cruenta, di un più vasto percorso che ha tenuto in ostaggio il paese dentro una voragine alimentata dal terrore e dallo stragismo mafioso sostenuto da forze oscure non sempre estranee alle istituzioni ufficiali. E per l’ennesima volta ci ritroviamo alle prese con l’inadeguatezza che impedisce lo squarcio di luce che porti alla verità giudiziaria di tanti fatti e misfatti, lasciando la poco piacevole sensazione di una verità negata che fa da schermo ad un’altra verità inconfessabile.

La strage di Firenze è solo una parte di questa storia maleodorante che prende piede dalla fine degli Anni Ottanta e non trova ancora soluzione, a giudicare da quanto accade. La notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 una tremenda carica di esplosivo mafioso sventra la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, uccidendo Fabrizio Nencioni, la moglie Angela Fiume, le loro figliolette Nadia (9 anni) e Caterina di appena 55 giorni. Muore anche lo studente Dario Capolicchio. L’Italia rimane tramortita da tanta violenza premeditata. Il terrorismo politico era stato debellato e pochi sospettavano la possibilità che un altro cancro così feroce si abbattesse sul paese.

Eppure più di un’avvisaglia c’era stata: il 14 maggio il giornalista Maurizio Costanzo e la moglie, Maria De Filippi, erano scampati miracolosamente al tritolo mafioso piazzato nelle vicinanze del teatro Parioli dove il conduttore registrava il suo programma. Qualche sera prima aveva intervistato la nuora del boss Francesco Madonia, forzandola a prendere le distanze dalla famiglia del marito. E prima ancora aveva platealmente bruciato, dal palcoscenico del teatro, la maglietta con su scritto “Mafia”.

Ecco perché, come per riflesso condizionato, gli osservatori più attenti indicarono senza esitazione la pista mafiosa per entrambi gli attentati. Non sfuggiva che si stava sviluppando, neppure tanto sottotraccia, una strategia di aggressione allo Stato da parte di una organizzazione criminale, Cosa nostra, che evidentemente “chiedeva qualcosa” alle forze politiche, dopo aver subìto l’onta (per la prima volta nella propria storia) di condanne esemplari per la “mattanza” inflitta alle istituzioni con la soppressione sistematica di tutti i servitori dello Stato che si opponevano a Cosa nostra e, soprattutto, con la plateale aggressione di maggio e luglio ‘92, quando due autobomba avevano disintegrato i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte. E tutto questo per “tamponare” i “danni” provocati a Cosa nostra dal maxiprocesso di Palermo che, contro ogni aspettativa di Totò Riina e del suo gruppo dirigente, aveva inchiodato all’ergastolo (con sentenza definitiva) l’interna direzione strategica dell’organizzazione.

Nel 1993, dunque, era già ben chiaro e delineato che tra Cosa nostra e lo Stato fosse guerra aperta. Ma fino a quel momento la guerra si era svolta con “armi convenzionali” e la mafia aveva concentrato le sue attenzioni verso acclamati nemici storici come Falcone e Borsellino. A un certo punto, però, la guerra cambia e Totò Riina abbraccia la strategia politico-terroristica. Il pentito Gaspare Spatuzza dice proprio così: “Una organizzazione criminale viene trasformata in gruppo terroristico. Una scelta che rinnega la stessa storia di Cosa nostra, mai prima di quel momento propensa a coinvolgere nelle guerre i cittadini inermi”.

Evidentemente una simile scelta non può che essere frutto di condivisioni con “altri elementi esterni a Cosa nostra” che dalla strategia terroristica intendevano trarre vantaggi di altro tipo. Le carte giudiziarie, pur non disponendo di prove certe, questa “sinergia” la descrivono e consegnano all’opinione pubblica un intreccio di “concorso” nella strategia mafiosa da parte di elementi o addirittura organizzazioni collocabili nella grigia galassia dei servizi di sicurezza e di alcuni “collaboratori irregolari”, gravitanti nel mondo della destra estrema, come Stefano Delle Chiaie o Paolo Bellini, il freelance “nero” (appena condannato per la strage di Bologna) che agganciò il mafioso Antonino Gioè suggerendo la strategia dell’attacco ai beni artistici dello Stato. Una strada, quella del contatto irregolare con Bellini, che lo porterà al suicidio (suicida o suicidato?) nel carcere di Rebibbia.

E non sempre i dati certi hanno poi ottenuto risposte investigative tra agende, borse e documenti scomparsi. Per esempio si sa con certezza quando Riina lancia la campagna stragista richiamando in Sicilia la squadra che avrebbe dovuto uccidere Falcone a revolverate, a Roma. Il gruppo di fuoco era di prim’ordine e guidato da capi del calibro di Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. A un certo punto Riina li fa tornare a Palermo: “Si fa qui, in altro modo”. Cioè con l’esplosivo, trasformando l’omicidio di un nemico in un “affaire” politico. Chi, cosa è intervenuto per un simile, enorme cambio di strategia? Una risposta a questa domanda sarebbe un buon passo avanti verso qualche verità. Ma né Graviano (che pure qualche segno di irrequietezza l’ha dato) né Messina Denaro sembrano intenzionati a parlare.

Già, il nervosismo di Graviano che va preso con le molle, vista la capacità manipolatoria del soggetto. Il boss di Brancaccio ha concentrato le sue ammissioni in direzione di Silvio Berlusconi, raccontando di pregresse sinergie finanziarie tra la sua famiglia naturale e mafiosa e il cavaliere quando era soltanto un imprenditore milanese. Si parla di una ventina di miliardi di vecchie lire servite a foraggiare l’attività immobiliare di Berlusconi.

Poi Graviano ha abbassato i toni, ma è arrivato l’ex gelataio Salvatore Baiardo, altro teste abbastanza ondivago che ha tirato in ballo addirittura l’esistenza di tre foto che ritrarrebbero il cavaliere di Arcore con Giuseppe Graviano e il generale Delfino, discusso agente segreto con un ruolo non limpido nella vicenda della cattura di Totò Riina.

Il mistero delle foto è già costato il posto al conduttore Massimo Giletti, privato della trasmissione quando era prossimo a raccontare in TV tutta la vicenda. Eppure qualche conseguenza Graviano l’ha provocata: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (definitivamente condannato per concorso esterno) nuovamente indagati dalla Procura di Firenze, dopo essere entrati e usciti almeno due volte dalla vicenda delle stragi. Inutile sottolineare quanto difficile sia supportare con prove queste che gli avvocati degli imputati chiamano “suggestioni”.

D’altra parte non c’è una sola inchiesta “complessa”, da Salvatore Giuliano in poi, che abbia riscosso un “premio verità”. Il potere difficilmente si fa processare e, quando deve, si fa processare e assolvere.