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di Carmelo Palma

linkiesta.it, 17 agosto 2023

Le polemiche sui suicidi in carcere sono tornate per ricordarci che se ne parla sempre e solo per banalità logistico-organizzative, mai dal punto di vista politico o giuridico. Ma viviamo in un Paese in cui la premier e il ministro della Giustizia sono garantisti solo fino al processo: per loro sulla punizione è doveroso essere giustizialisti.

Le discussioni e le polemiche sui suicidi in carcere e sulla insostenibilità delle condizioni di detenzione negli istituti di pena anche questa estate si sono riproposte con una macabra puntualità. Si tratta di discussioni in cui, nella generalità dei casi, si evita accuratamente di toccare il nucleo politicamente “radioattivo” del problema, ma ci si limita a girare intorno a questioni logistico-organizzative (a partire dal cronico sovraffollamento e dalla ancora più cronica assenza di servizi, occasioni e relazioni), che però sono esse stesse un effetto, e non una causa, della disumanizzazione della galera, la quale - come è noto e ormai accettato - non è a immagine di quel che prescrive la nostra Costituzione, ma a somiglianza di ciò che il sistema politico italiano, senza differenze significative, ritiene che debba essere la funzione politica e sociale della pena.

Dire “il sistema politico italiano”, poi, non è una generalizzazione gratuita, ma la fotografia fedele di una sostanziale continuità nelle politiche di esecuzione della pena, su cui la destra ha imposto certamente il suo timbro, ma su cui il Partito democratico e la sinistra hanno evitato accuratamente la sfida per non scoprirsi sul fronte securitario. I più attenti e memori ricordano lo snodo della fine della XVII legislatura, in cui il Governo Gentiloni evitò di emanare un decreto legislativo già pronto in materia di pene alternative (il primo e necessario modulo di riforma dell’ordinamento penitenziario) per paura di pagare dazio, poco più di un mese dopo, alle elezioni politiche.

Rimane il fatto che basta scorrere l’elenco dei suicidi (e delle morti in carcere per altra causa) dell’ultimo quarto di secolo per vedere che le prigioni italiane rimangono posti poco vivibili e molto mortali, in un senso tragicamente letterale e con una tendenza al peggioramento. Non c’è alcuna speranza che la situazione si modifichi per puro scrupolo umanitario e diligenza burocratica, senza mettere in discussione il presupposto ideologico di “questa” galera, che, proprio in quanto ideologico, resiste a qualunque smentita sperimentale.

Si ha un bel da dimostrare che i benefici penitenziari riducono la recidiva dei detenuti, che aggravare le pene non riduce affatto i reati e che i tassi di carcerazione e criminalità sono spesso correlati in un modo paradossale e sono le norme più “carcerogene” a essere più criminogene (come ad esempio quelle sulla droga).

Anche nei momenti più liberi e eccelsi del suo garantismo convegnistico-accademico il non ancora ministro Carlo Nordio in tema di esecuzione della pena non ha mai nascosto un approccio signorilmente reazionario e sostanzialmente allineato alla retorica della fermezza.

Ad esempio, sul referendum in materia di carcerazione preventiva, promosso lo scorso anno dal Partito Radicale con la Lega, sostenuto per onore di firma dalle altre forze del centro destra e vanificato, come quasi sempre accade negli ultimi decenni, dalla strategia astensionistica, Nordio si schierò sì a favore, ma spiegando che il problema italiano non era solo che in galera fosse facile entrarvi da innocenti (detenuti in attesa di giudizio), ma anche quello che fosse troppo facile uscirne da colpevoli (condannati con sentenza definitiva).

La tesi cara alla premier Giorgia Meloni per cui il garantismo riguarda il processo, ma non la pena, su cui è doveroso invece essere giustizialisti, non è quindi una fuga in avanti della Presidente del Consiglio rispetto agli insegnamenti del suo precettore liberale, ma una libera e coerente traduzione rusticana del pensiero del Ministro della Giustizia.

L’equivalenza tra la certezza della pena e la non derogabilità della galera per l’intera durata della sanzione detentiva comminata dal giudice è uno di quegli spropositi, a cui il legislatore normalmente ricorre per giustificare e consolidare il pervertimento della funzione costituzionale della pena, fatta coincidere con una legge del taglione appena civilizzata, in cui la mutilazione della mano o della testa del colpevole è surrogata da una parziale o totale, ma comunque perfettamente corrispettiva, mutilazione della sua libertà personale.

La certezza della pena, secondo Costituzione, significa che il sistema penale deve essere concretamente in grado di perseguire i reati e di condannarne i colpevoli, non che le modalità di esecuzione della pena non possano (anzi debbano!) essere graduate, nella forma e nella durata, coerentemente all’obiettivo di restituire il reo alla vita sociale, senza che torni a rappresentare un pericolo. Se non si riparte da cosa dovrebbe essere la pena secondo la legalità costituzionale e non la si dissocia concettualmente dalla galera, non c’è alcuna speranza che questa cessi di essere un tormento e un oltraggio all’umanità dei detenuti. E i suicidi di molti di loro continueranno a fare pendant a una Costituzione suicidata.