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di Maurizio Molinari

La Repubblica, 7 maggio 2023

Il Paese al voto domenica prossima per scegliere tra il presidente al potere dal 2002 e Kilicdaroglu, che si ispira ad Ataturk e vuole riavvicinare Ankara a Usa ed Europa. Fra sette giorni si svolgono in Turchia le elezioni politiche nazionali più importanti dell’intero 2023: sono destinate ad avere profonde conseguenze per la sicurezza dell’Europa, del Medio Oriente, del Nordafrica e, più in generale, per gli equilibri strategici nello scacchiere del Mediterraneo allargato che investono direttamente anche l’Italia.

A cento anni dalla fondazione della Repubblica turca da parte di Mustafa Kemal Ataturk, a sfidarsi nelle urne per la guida politica di una nazione di 85 milioni di abitanti saranno due contendenti che non potrebbero essere più differenti. Recep Tayyip Erdogan, 68 anni, è il presidente uscente, il cui partito “Giustizia e Sviluppo” (Akp) controlla la Turchia dal 2002, ideologo dell’Islam politico, autore di una riforma istituzionale che ha accentrato sulla presidenza i poteri del Parlamento e interprete della strategia neo-ottomana della “Patria blu” per fare della Turchia la potenza capace di imporsi ovunque nel Mediterraneo, alleandosi con chiunque, dettando condizioni ed accordi a piccole e grandi potenze con l’unico fine di far tornare il “mare di mezzo” un lago turco. Lo sfidante è invece Kemal Kilicdaroglu, 74 anni, leader del maggiore partito di opposizione “Chp” (Partito Popolare Repubblicano), meglio noto come il “Gandhi turco” per essere riuscito a creare un’”Alleanza nazionale” composta da sei partiti - dai nazionalisti alla sinistra, dai curdi ai verdi - diversi in tutto ma accomunati da voler sconfiggere Erdogan, ripristinare la sovranità del Parlamento, riavvicinarsi all’Europa ed agli Stati Uniti, rompere l’abbraccio con Putin, rimandare indietro 3,6 milioni di profughi siriani e restituire la Turchia alla scelta dell’identità laica di Ataturk ponendo fine ad ogni legame con il fondamentalismo islamico e soprattutto abbattendo un’autocrazia che ha sistematicamente limitato e represso i diritti umani.

I sondaggi suggeriscono che il voto per assegnare la presidenza ed i 600 seggi del Parlamento è un vero e proprio testa a testa, dove ogni previsione può rivelarsi errata. Il tema-chiave si preannuncia l’economia perché l’inflazione record al 51% - stimata dagli esperti al 112% - ha polverizzato il potere d’acquisto e il benessere che Erdogan è riuscito, nell’arco di due decadi, a garantire alle regioni più povere del Paese, nell’Anatolia asiatica sua roccaforte, trasformando milioni di poveri in classe media. E il terremoto del 6 febbraio con gli oltre 50 mila morti ha infierito proprio su alcune di queste regioni, a lui più vicine. Sono tali premesse a far credere al “Gandhi turco”, un uomo dal carattere mite, di poter vincere già al primo turno, sfondando il quorum del 50 per cento dei voti. Ma Erdogan ha già dimostrato più volte in passato di essere un combattente formidabile, capace di risollevarsi dalle difficoltà più serie, usando ogni strumento possibile per mettere ko l’avversario.

Per comprendere quanto il voto di domenica prossima è un referendum sull’identità stessa della Turchia, basta ascoltare le voci degli opposti campi. Unal Cevikoz, consigliere di Kilicdaroglu, definisce così le elezioni: “La possibilità di passare da un sistema autoritario guidato da un uomo solo ad un governo espressione di un processo democratico”. Ma sul fronte opposto Akif Cagatay Kilic, capo della commissione Esteri dell’attuale Parlamento, ribatte: “In 20 anni siamo stati noi a portare la Turchia ad essere al centro di qualsiasi cosa che accade in Medio Oriente, nell’Egeo, nel Mediterraneo Orientale ed in Russia. Tutti vogliono sentire la voce di Erdogan”. Lo scontro è dunque sulla conferma al potere del leader dell’autocrazia più influente dell’intero Mediterraneo. E questo spiega perché l’estrema destra ultranazionalista del “Mhp” è l’unico vero alleato di Erdogan.

Da qui il motivo per cui su tutti e tre i Continenti che si affacciano sul “mare di mezzo” si trattiene il fiato. È la stessa dinamica del Mediterraneo allargato, uno scenario strategico frutto del proliferare di grandi e piccole potenze in questo inizio di XXI secolo, ad esaltare l’importanza del voto turco. Se infatti Erdogan restasse in sella avrebbe davanti altri cinque anni di potere assoluto - un’eternità agli attuali ritmi della Storia - per imporsi come interlocutore obbligato di Usa, Russia e Cina nella regione “blu” fra il Bosforo e Suez, Hormuz e il Canale di Sicilia. Se invece fosse battuto dal “Gandhi turco” molte crisi regionali, militari o energetiche, congelate dai suoi veti potrebbero aprirsi: dalla Libia alla Siria, da Cipro al Kurdistan iracheno. Per non parlare degli accordi sull’immigrazione siglati da Erdogan con l’Unione Europea che Kilicdaroglu vuole rivedere all’interno di un nuovo approccio per “riaprire i negoziati per l’adesione a Bruxelles iniziando a liberare dalle carceri turche chi viene ingiustamente detenuto”.

Anche per il nostro Paese, dunque, le elezioni di Ankara si preannunciano come un passaggio cruciale, che chiama direttamente in causa i nostri interessi nazionali su temi strategici come la guerra in Ucraina, la coesione della Nato, i confini dell’Unione Europea, la lotta al terrorismo islamico, la stabilità della Libia, il controllo dei flussi migratori verso l’Europa e lo sviluppo di nuove fonti di energia nel Mediterraneo Orientale. Lo scenario regionale di cui siamo al centro è divenuto negli ultimi anni lo scacchiere più conteso fra Stati Uniti, Russia e Cina, di conseguenza qualsiasi importante cambiamento politico-economico ha, al tempo stesso, un impatto diretto sulla nostra sicurezza nazionale e sugli equilibri globali. Per questo sarebbe il caso di guardare con grande attenzione a quanto sta maturando nella Repubblica che Ataturk ha creato, di cui Erdogan si è impossessato e che ora è teatro della più imprevedibile delle sfide elettorali. Dove le sorprese non sono affatto escluse.