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di Massimo Recalcati

La Stampa, 11 maggio 2022

In una recente intervista la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz, denuncia il suo sconforto nel constatare come l’evidenza dei massacri di civili inermi perpetrati dall’esercito russo in Ucraina anziché sollevare un coro unanime di sdegno animi invece crescenti dubbi e perplessità. Gli stessi che gli storici definiti “negazionisti” adottarono per provare a sconfermare l’esistenza traumatica della Shoah.

Un recente manifesto che riunisce noti e autorevoli giornalisti invita a verificare le prove, procedere con cautela nella lettura dei fatti, attenersi al reperimento degli indizi certi prima di formulare giudizi e attribuire responsabilità. Quanti sono stati veramente i bambini uccisi? Le donne stuprate? Gli uomini torturati? I civili ammazzati? Davvero sono morti a centinaia sotto il teatro di Mariupol? Chi lo dice? Dove sono le prove? E di quali misfatti si sono macchiate anche le truppe ucraine? Quale è la responsabilità del governo di Kiev nel rappresentare a sua volta in modo solo propagandistico la verità? Nei talk show televisivi, seguendo il fortunato schema collaudato nella pandemia, si invitano voci dissonanti, divergenti, fuori dal coro per preservare lo spirito democratico del dibattito.

L’audience, come sanno bene i conduttori, in questi casi ci guadagna significativamente. Prima era il turno dei no vax con le loro variopinte casacche a difendere con vigore i diritti costituzionali calpestati dal nuovo regime total-sanitario che approfittando della pseudo-pandemia avrebbe ristretto in modo abusivo le nostre libertà individuali costringendo milioni di persone a sottoporsi ad una vaccinazione con un siero non ben indentificato, ma alla lunga, molto probabilmente, più letale del male che intendeva contrastare. Ora è il turno della guerra in Ucraina.

Eppure la postura resta sempre la stessa: al centro è lo stesso pensiero anti-sistema e negazionista. Il populismo no vax si trasfigura così in quello dell’equidistanza se non dell’aperta difesa di Putin, vittima della maligna avidità dell’Occidente. Insomma, dovremmo fare attenzione alla contraffazione della verità che, attraverso la spudorata manipolazione dei media, la riduce a mera propaganda guerrafondaia che difende gli interessi americani, una Europa corrotta e incapace, l’elite finanziaria, l’oligarchia del governo Draghi, il tradimento del popolo, ecc.

Di fatto sarebbero in corso due guerre distinte: quella che gli eserciti combattono sul campo e quella del conflitto delle interpretazioni. Seguendo il fortunato slogan secondo il quale la verità sarebbe la prima vittima di ogni guerra - i fatti sono resi irriconoscibili dalla propaganda - sarebbe solo grazie alla nobile figura del dubbio e della raccolta necessaria e paziente delle prove che si riuscirebbe a ricostruire una verità sfuggente. Ma l’effetto di questo atteggiamento è che l’evidenza viene annullata in una girandola di discorsi che finisce per annullare le responsabilità mescolandole in una sola indistinta poltiglia. Non a caso la nozione di “complessità” gioca un ruolo retorico cruciale in questa battaglia delle interpretazioni. Il rinvio del giudizio, la ricostruzione storica, l’equidistanza necessaria, l’attribuzione di eguali responsabilità dei due contendenti (Nato e Putin; Russia e Ucraina) getta, in realtà, sabbia negli occhi.

Ma gli occhi di Edith Bruck, che hanno già visto l’orrore, non hanno affatto bisogno della nobile arte del dubbio, non servono a lei ulteriori prove per riconoscere un crimine di guerra. Se un regime, come quello russo, occulta sistematicamente da più di vent’anni la verità, reprime il dissenso, abolisce ogni forma di democrazia, uccide e avvelena gli oppositori, coltiva il sogno della Russia come baluardo nei confronti della democrazia, scatena una guerra nel cuore dell’Europa, bombarda le città, uccide i civili inermi, è davvero necessario sollevare dubbi, perplessità, interrogativi sul massacro di Bucha e agli altri che purtroppo ne seguiranno? Nel nome di quale concezione astratta della verità?

Non sono sufficienti le testimonianze, le immagini, i racconti dal fronte? Ma, direbbero i preoccupati per la difesa ad oltranza della verità, alcuni dettagli non tornano, alcuni elementi restano contradittori, non tutto quadra, bisogna fare attenzione. “Anime belle del cazzo”, risponderebbe loro Pasolini, non vedete che qui c’è un popolo che lotta disperatamente per la difesa eroica della propria terra offesa da una invasione che non può avere giustificazioni?

Nella sproporzione delle forze, nell’ingiustizia di un’aggressione subita, nella cieca violazione dell’intimità delle famiglie, nelle città rase al suolo, nell’atroce sofferenza collettiva, un popolo resiste. E voi credete davvero che nel nome della ricerca paziente della verità sia necessario mostrare la sfumatura, indicare dove le acque si mescolano, le colpe comuni, gli inganni e i torti reciproci, problematizzare, disquisire per scambiare i piani, mettendo sullo sfondo ciò che deve restare al centro e viceversa?

È quello che accade talvolta anche nel caso delle separazioni conflittuali tra coppie. Esiste una verità comunemente riconosciuta: la responsabilità va sempre distribuita in parti eguali. Poi però ci sono anche situazioni cliniche dove la responsabilità è con evidenza di una sola delle due parti; e, questi casi, è solitamente la responsabilità di chi non è in grado di accettare la volontà di libertà dell’altra parte. È il maschilismo evidente della guerra di Putin: non tollerare la libertà di una terra che considera di sua proprietà.