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di Giorgio Varano

huffingtonpost.it, 5 giugno 2023

Occorre cambiare completamente l’approccio, favorendo un’evoluzione culturale e cercando anche di accogliere chi ha bisogno di aiuto senza dargli la sensazione che sarà sottoposto a giudizio. Le tragiche e assurde morti di Giulia Tramontano e di Pier Paola Romano riaccendono l’attenzione sulla violenza contro le donne.

Due vicende terribili in cui, soprattutto per il brutale omicidio di Milano, il racconto evidenzia uno dei problemi irrisolti nella declinazione di questo grave tema: la sua comunicazione. È immediatamente partito, infatti, il cosiddetto “gioco delle colpe” causato da una divulgazione sbagliata che ha come effetto quello di allontanare molte donne dalla comprensione e dalla prevenzione delle violenze.

La conferenza stampa della procura di Milano - che a tratti è apparsa come un programma tv sul crimine - ha mostrato come le competenze in materia di reati non sempre si accompagnano a quelle in tema di comunicazione, e anche una certa trasbordante tendenza degli inquirenti a sconfinare dalla funzione di repressione dei reati ad una missione paideutica nei confronti non solo degli autori ma anche delle vittime delle violenze.

Affermare che “questa vicenda rappresenta la tragica conseguenza di atteggiamenti di violenza sopportati dalla donna”, e “a noi donne insegna che non dobbiamo mai andare ad un ultimo incontro chiarificatore. Si tratta di un momento estremamente pericoloso”, significa da un lato arrendersi alla privazione di determinate libertà, dall’altro rischiare di creare distanze e vergogne in chi è sottoposto ad una fase di grave difficoltà emotiva. Senza considerare che nel caso di Giulia la povera vittima è tornata a casa sua e che (almeno a quanto pare) non c’erano stati mai, prima dell’omicidio, episodi di violenza fisica.

Occorrerebbe cambiare passo, con un approccio divulgativo inclusivo e accogliente che consenta alle donne che subiscono violenze di non chiudersi in loro stesse e a chi le commette di comprendere la gravità dei propri comportamenti prima di arrivare ad epiloghi dolorosi o peggio ancora tragici. Il tema di fondo riguarda la libertà emotiva (che non significa irresponsabilità). Ogni donna deve essere libera di provare sentimenti, di fare o non fare determinare scelte, senza che le sue emozioni o le sue decisioni vengano giudicate errate o imprudenti, magari con il famoso senno di poi in cui eccellono in tanti.

Fornire giudizi o linee guida sui comportamenti di chi subisce delle violenze fa scattare quel “gioco delle colpe” che è proprio alla base delle difficoltà nell’uscire da rapporti violenti. Attardarsi su argomenti quali quello di relazioni extra coniugali, messaggi privati o tardività nella scelta di troncare un rapporto serve solo a stimolare la pruriginosità dei media e a perseverare nel non comprendere che ognuno è libero di fare le proprie scelte emotive senza doverne pagare le conseguenze, perché non è di proprietà di nessuno. Basti pensare che Giulia è stata assassinata perché considerata un ostacolo dal suo omicida, mentre Pier Paola è stata assassinata perché aveva scelto di non continuare la propria relazione con il suo omicida. Inoltre, pensare che le regole di precauzione possano valere per tutte le situazioni significa non capire che ogni persona non può prevedere come reagirà in un rapporto distorto, proprio perché il primo problema che ha è il comprendere tale distorsione.

Se, come tutti dicono, il tema è quello della prevenzione delle violenze, è necessario affermare con forza che le persone hanno la facoltà di scegliere, non il dovere di farlo. Si ottiene molto di più consigliando di “scegliere” di parlare di questi gravi problemi con persone specializzate, piuttosto che elencando i “doveri” (“non andare ad un ultimo incontro chiarificatore”, “non sopportare le violenze”, etc.). Occorre da un lato aiutare le donne a vincere imbarazzi, inconsapevolezze, ritrosie, a riconoscere sottovalutazioni e segnali di violenze, dall’altro aiutare gli uomini ad acquisire consapevolezza della gravità dei propri comportamenti, che non sempre si concretizzano in violenze fisiche.

Occorre, in altri termini, superare l’idea che le emozioni, anche altalenanti, siano disarmonie o segni di debolezza e che chiedere aiuto sia un’ammissione di fallimento. Invece, complici una serie di dettagli e di valutazioni giuridiche, ora tutta l’attenzione si è concentrata su alcune circostanze tecniche complesse che vengono sviscerate solo per gridare al pericolo che l’omicida “eviti” il massimo della pena. Parlare di presenza o assenza di premeditazione oltre ad essere del tutto inutile quanto alle conseguenze sulla pena (in questo caso, viste le altre aggravanti, di cui una oggettiva) serve solo a creare le opposte fazioni - tipiche del format mediatico per questi casi - utili allo share e dannose per la possibilità di prevenire altri reati del genere attraverso una comunicazione accogliente ma soprattutto finalizzata alla comprensione delle complesse problematiche della violenza contro le donne.

La politica, come sempre accade in questi casi, interviene per annunciare come prima reazione degli aumenti di pena e poi delle misure utili alla prevenzione di tali reati. Come se chi usa violenza si fermasse a ragionare perché in caso di consumazione di un reato prenderebbe qualche anno in più di carcere o perché sarebbe marchiato da uno stigma di riprovazione sociale. Come se chi subisce violenza fosse stimolato a parlarne perché le pene sono più alte.

L’unico obiettivo serio è quello di prevenire la commissione di tali reati e certamente intervenire inasprendo le reazioni a reati avvenuti, con l’aggravamento delle misure cautelari o l’aumento delle pene, non serve allo scopo sia perché non si può vincere una battaglia contro un arretramento culturale con gli strumenti del diritto penale, sia perché l’obiettivo primario di chi subisce violenze non è l’allontanamento temporaneo o la punizione (magari a distanza di vari anni) di chi le commette, ma la liberazione psicologica, emotiva e a volta anche economica dalla persona violenta.

Occorre cambiare completamente l’approccio, curando con molta attenzione la comunicazione, favorendo un’evoluzione culturale e cercando da un lato di accogliere chi ha bisogno di aiuto senza dargli la sensazione che saranno sottoposti a giudizio - più o meno pubblico - i suoi comportamenti, le sue emozioni, la sua intimità, le sue libertà, e dall’altro far comprendere che usare violenza o limitare la libertà di una persona significa fare del male non solo a lei ma anche a chi pone in essere questi terribili comportamenti.