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di Linda Laura Sabbadini

La Repubblica, 12 settembre 2023

Il pm chiede l’assoluzione per il marito che picchiava la moglie 27enne originaria del Bangladesh. Un inaccettabile caso di relativismo culturale in un’aula di tribunale. Una giovane di 27 anni originaria del Bangladesh denuncia il marito nel 2019 per maltrattamenti. E sappiamo che cosa voglia dire, quanto sia difficile per una donna farlo. La donna riferisce di aver subito un matrimonio combinato in patria. E di essere stata maltrattata fisicamente e psicologicamente, vivendo addirittura segregata. Ebbene ora il pm di Brescia chiede l’assoluzione del marito perché i “contegni di compressione delle libertà morali e materiali”, che quindi secondo il pm ci sono stati, sono “il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge”.

Alcuni interrogativi sono d’obbligo. Perché se la compressione delle libertà morali e materiali c’è stata, il fatto che ciò sia permesso dalla sua cultura dovrebbe farlo assolvere? Allora questo vuol dire che se gli stessi atti fossero avvenuti ad opera di un italiano sarebbe stato forse diversa la posizione del pm, perché la cultura italiana non lo prevede? Ma la legge non è uguale per tutti? E se abbiamo una Costituzione che difende la dignità di uomini e donne, e abbiamo le norme contro la violenza sulle donne, che cosa vale di più, la cosiddetta cultura di provenienza che permette di calpestare la libertà della donna o le nostre norme?

Ogni cittadino di qualunque parte del mondo deve essere benvenuto nel nostro Paese. Ben vengano persone multicolori, arricchiscono la società, la rendono più aperta, più creativa, più innovativa, proiettata al futuro con il loro contributo. Ma devono rispettare i diritti e la dignità delle persone, devono rispettare le regole del nostro Paese. E il nostro sistema di giustizia deve garantire che ciò succeda. Che una persona priva di cultura giuridica possa portare le argomentazioni citate può pure essere. Se ne discute. Ma che ciò debba avvenire in un’aula di Tribunale da parte di un pm mi preoccupa e non poco. Ci dice che i Tribunali sono immersi nella società e al loro interno ritroviamo le stesse resistenze culturali e stereotipi che si sviluppano nella società stessa. Ci dà segnali negativi sul clima che incontrano le donne quando faticosamente arrivano a denunciare l’autore di violenza.

Si prendono a pretesto gli argomenti della giusta teoria del “relativismo culturale” che ha messo in discussione l’interpretazione della realtà alla luce della superiorità della cultura occidentale, sminuendo la nobiltà di altre culture. Ma lo si fa svilendola, rivelando una malcelata velleità maschilista, quando la violenza sulle donne si assimila a usanze culturali e non a reati contro la persona.

La violenza sulle donne è un crimine ed in quanto tale, come tutti i crimini, senza eccezione alcuna, deve essere punito. Se no, si può giustificare di tutto, dall’uccisione della ragazza Saman da parte del padre pachistano, di fronte al quale rivendicava la sua libertà, all’omicidio d’onore. No, non è tutto relativo. I crimini sono crimini. E le usanze culturali sono l’espressione della cultura patriarcale, della volontà di dominio dell’uomo sulla donna.

C’è un altro passaggio nella motivazione del pm inaccettabile. “La disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”. Cioè il pm, invece di essere contento che la donna vivendo nel nostro Paese ha preso coscienza dei diritti che una democrazia come la nostra garantisce, la condanna a non ricevere giustizia e usa il fatto che lei avesse inizialmente accettato quei comportamenti contro di lei. Ma la donna è più avanti del pm. E rivendica il suo diritto a non essere schiava. Motivazioni del genere umiliano il sistema della giustizia, intaccano la fiducia nella democrazia, allontanano le donne dalle aule dei tribunali. Una risposta ferma deve essere data. In primis dal sistema di giustizia.