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di Carlo Bonini

La Repubblica, 23 maggio 2022

Il “metodo Falcone” sta prevalendo sulla cultura della convivenza con i clan. Ma la strada è lunga. Gli anniversari sono materia friabile e delicata. Essenziali nella costruzione e disciplina della memoria, eppure, e insieme, permeabili al rischio di trasformare la ritualità del ricordo in un simulacro. A maggior ragione nel giorno in cui, a distanza di trent’anni, e come accade ogni anno, torniamo a inchinarci sul ciglio del cratere di Capaci e sulla devastazione di via D’Amelio, acme della stagione stragista di Cosa nostra e punto di svolta della nostra storia repubblicana. Politica e civile. Per questo, nello speciale che Repubblica dedica oggi a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Francesca Morvillo e agli agenti delle loro scorte, a quella spaventosa estate siciliana del 1992, lo sforzo è stato ed è quello di sottrarli alla fissità dell’istante in cui le loro vite vennero strappate.

Ha senso, infatti, chiedersi cosa ne sia oggi della loro eredità. Di un “metodo” che rivoluzionava le routine del contrasto a Cosa nostra, ne moltiplicava e integrava i fronti di aggressione e che costrinse un intero Paese - la sua classe politica, i suoi apparati di sicurezza, la magistratura, l’avvocatura, la cosiddetta “società civile” - a uscire dalla zona grigia dei silenzi complici, della paura, della rassegnazione, della convenienza e convivenza con Cosa nostra, per misurarsi con un interrogativo radicale. Quello declinato, il 25 maggio del 1992 a Palermo, nella chiesa di san Domenico, dalla semplicità delle parole, rotte dal pianto e dal dolore, di Rosaria Schifani, di fronte alle bare del marito e agente di scorta Vito, di Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, degli altri poliziotti Rocco Dicillo e Antonio Montinaro: “Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro, ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio... di cambiare... loro non cambiano... Se avete il coraggio di cambiare, di cambiare... loro non vogliono cambiare...”. E riassunto, in tempi recenti, dalle parole del capo dello Stato, il palermitano Sergio Mattarella: “O si sta contro la mafia o si è complici, non ci sono alternative”.

Come oggi sappiamo, fu proprio l’animalesca percezione dei Corleonesi del pericolo “vitale” portato a Cosa nostra e al metodo mafioso dalla radicalità del metodo Falcone-Borsellino, il rischio rappresentato dalla sua forza di contagio politico e civile, ad armare la mano stragista. E furono, soprattutto, la celebrazione del maxiprocesso alla catena di omicidi e traffici della mafia degli anni Ottanta (giudizio cominciato a Palermo il 10 febbraio del 1986 e concluso il 30 gennaio del 1992) e i suoi esiti (474 gli imputati, tra capi mandamento e semplici uomini d’onore, 221 dei quali detenuti, per un totale di 19 ergastoli e 2.665 anni di reclusione) a segnalare a Cosa nostra il salto di qualità nella risposta che lo Stato sembrava improvvisamente e inopinatamente capace di offrire. Quella di rendere giustizia e di colpire a fondo la struttura gerarchica e il sistema di interessi mafiosi, svelandone la fragilità, sfidandone con successo l’impunità, senza tradire i principi dello stato di diritto. Dunque, senza snaturare il dna democratico e costituzionale della risposta repressiva e punitiva. Senza cadere nella tentazione di assumere le sembianze del nemico per poterlo sopraffare.

Naturalmente, faremmo oggi un torto a noi stessi e alla storia di questi trent’anni, se dicessimo che quel metodo (e con lui il punto di svolta e non ritorno che rappresentò nella lotta alla mafia) sia stato custodito e rispettato da tutti coloro che, da quell’estate del 1992 in avanti, raccolsero il testimone di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Perché così non è stato. Ma faremmo un torto persino peggiore alla loro memoria e sacrificio e alla nostra storia recente se concludessimo che lì dove l’antimafia (termine generalmente e spesso utilizzato per confondere i singoli con il tutto e dunque annullare singole responsabilità in uno stigma collettivo e liquidatorio) ha scritto pagine dimenticabili della sua parabola, o lì dove quella parola, “antimafia”, è stata utilizzata come un’impostura, questo abbia finito o debba finire per mettere in discussione la coerenza di un percorso che, da trent’anni, spesso in silenzio e lontano dalla luce della cronaca, dei talk-show e dei social, ha portato questo Paese a emanciparsi progressivamente dalla cultura della convivenza mafiosa.

Un giorno, forse, sarà possibile celebrare l’anniversario di Capaci e via D’Amelio come quello della sconfitta delle mafie e non solo del sacrificio degli uomini che ne hanno messo in crisi il modello di espansione. Forse. Diciamo che il cammino sarà ancora molto lungo, anche perché la geografia delle mafie e dei suoi rapporti di forza, come spieghiamo in queste pagine, è cambiata e continua a essere in continua evoluzione e sempre di più su un piano transnazionale. Dalla nostra, abbiamo un’arma formidabile a disposizione. Che è la capacità di costruire memoria, di guardare con coraggio agli errori e alle sconfitte, così come alle vittorie, e di assumere ciascuno per la parte che gli compete una porzione di responsabilità civile e civica lungo quel percorso che l’estate del 1992 non solo non riuscì a soffocare nel sangue, ma rese irreversibile. Ripetendo a noi stessi come un mantra la lezione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: le mafie non sono invincibili.