sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Luigi Manconi e Federica Resta

La Repubblica, 12 settembre 2023

Ecco perché la scelta del governo di abbassare la punibilità dei minori è sbagliata. Tutti i provvedimenti decisi dal Consiglio dei ministri di giovedì scorso vanno in un’unica direzione: quella della attenuazione, se non dell’esclusione, della variabile rappresentata dall’età nella valutazione della responsabilità penale del minore autore di reato. È come se la fase dell’adolescenza venisse cancellata dalla considerazione del processo di formazione della personalità e non se ne valorizzasse, ai fini del giudizio penale, la particolare fragilità e vulnerabilità.

È quanto presuppongono le misure (ad eccezione dell’estensione della messa alla prova) assunte dal governo: nei fatti si assimila “il 14enne che spaccia” al “50enne che commette reati”, come fortissimamente voluto da Matteo Salvini. Così è per l’estensione ai minori del “daspo urbano”, dell’avviso orale del questore e della riduzione, della soglia per l’applicabilità, agli ultraquattordicenni, della custodia cautelare, dell’arresto e del fermo.

Ma ciò che più preoccupa è la possibilità (per ora esclusa dal decreto-legge ma tanto evocata e suscettibile di riproposizione nell’esame parlamentare), di modifiche in senso restrittivo sull’imputabilità dei minori. Da un lato si potrebbe ridurre - come già proposto dalla Lega anni fa - da 14 a 12 anni la soglia di imputabilità possibile (ammessa cioè quando si accerti la capacità di intendere e volere), portandola a un’età in cui l’accertamento della maturità del minore è particolarmente problematico.

Dall’altro lato si pensa di abbassare la soglia di imputabilità piena dai 18 ai 14 anni. Ovvero una delle cose “più fasciste” che si possano fare. In senso letterale, in quanto escluderebbe quella verifica della capacità d’intendere e volere (cioè della consapevolezza del disvalore delle proprie azioni), prevista dal codice Rocco secondo un principio di saggezza giuridica e un approccio al tema della responsabilità penale fondato su considerazioni di natura psicologica, sociale e culturale. Escludendo in tal modo la necessità di accertamento della maturità del minore, il dato anagrafico (la data di nascita) prevarrebbe su tutto il resto: analisi psicologica, ricostruzioni del contesto, anamnesi sociale, osservazione dei condizionamenti dovuti al quadro caratteriale, alla biografia individuale e familiare, alla particolare criticità di quella fase delicatissima di sviluppo della personalità. Il ministro di Benito Mussolini, Alfredo Rocco, si mostrò più attento alle moderne discipline della psiche di quanto sembra esserlo il ministro di Giorgia Meloni, Matteo Salvini.

La normativa vigente si fonda sulla convinzione che per la colpevolezza (e quindi l’imputabilità) non basti - si legge nella Relazione al codice Rocco del 1930 - “l’intelligenza; occorre sopra tutto che sia compiuto, o almeno molto progredito il processo di formazione etica dell’individuo”. È possibile, infatti, presumere senza eccezioni che tutti i quattordicenni, tanto più in una condizione di degrado sociale come quella delle mille Caivano, abbiano compiutamente svolto il loro percorso di maturazione etica? O, alternativamente, si potrebbe davvero ritenere che per un dodicenne la soluzione migliore sia il processo penale, l’imputazione, il carcere?

La scorciatoia più comoda nel diritto è sancire soglie (di età, di quantità...), presunzioni assolute (di imputabilità, di pericolosità ecc.): se il processo penale fosse tutto così costruito, non ci sarebbe neanche bisogno di un giudice; basterebbe un algoritmo. Ma questa scorciatoia priva la giustizia della sua qualità essenziale: la considerazione del reato come un fatto umano, troppo umano per essere ridotto a presunzioni astratte. E questo tanto più rispetto alla giustizia minorile che, come ha sottolineato la riforma del 1988, proprio in quanto rivolta a personalità ancora in formazione, necessita di individualizzazione e flessibilità. Dunque, queste modifiche non farebbero che attribuire responsabilità senza accertarne le cause, che è invece necessario anzitutto conoscere per contrastarle, limitando la recidiva.

Solo un accertamento puntuale del grado di maturità, come oggi previsto (e che pure il progetto Nordio di riforma del codice penale conservava) consente di individuare la pena “giusta” perché proporzionata alla colpevolezza del minore e, al contempo, efficace se modulata sulle sue specifiche esigenze rieducative. Ed è proprio questo il punto. La pena che si vorrebbe applicare (“la stessa del 50enne”, appunto), ossia, il carcere nella maggior parte dei casi, può garantire quel percorso di maturazione, fondato sull’etica della responsabilità, necessario ad allontanare da comportamenti devianti? Purtroppo anche per i minori il carcere è, troppo spesso, un luogo non di maturazione ma di regressione, che deresponsabilizza invece di responsabilizzare, e finisce per escludere proprio da quella società in cui, per Costituzione, dovrebbe reinserire. E allora si dovrebbe investire, per i minori ancor più che per gli adulti, su misure (interdittive, di comunità, di giustizia riparativa ecc) che puntino su quel processo di “formazione etica” che già il codice Rocco individuava quale presupposto necessario dell’imputabilità.