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di Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 4 dicembre 2023

La politica di riconciliazione nazionale avviata da Mandela ha segnato uno spartiacque nella cultura giuridica internazionale. La possibilità di ricevere assoluzione ammettendo le proprie colpe: questa è stata la ‘rivoluzione giuridica’ di Nelson Mandela. Il suo impegno per trasformare un Paese dilaniato dal segregazionismo in una “Nazione Arcobaleno” è narrato nel film di Clint Eastwood Invictus, che racconta il ruolo svolto dai mondiali di Rugby vinti dalla nazionale sudafricana, gli Springboks, sostenuti appunto da Mandela (i neri africani avevano sempre preferito il calcio al rugby, considerato uno sport “bianco” secondo loro).

Mandela perseguì una decisa politica di conciliazione nazionale, senza mai rinnegare il suo passato da guerrigliero. L’idea fondamentale di Mandela presidente era che i neri dovessero perdonare i bianchi per quello che avevano fatto. Attraverso la commissione speciale per la verità e la riconciliazione, molti Afrikaner colpevoli di delitti di segregazione razziale confessarono, vennero giudicati colpevoli, condannati e successivamente ricevettero l’amnistia. Mandela gettò le basi del primo modello di giustizia di transizione di tipo riparativo, inteso a contenere e trasformare le emozioni di chi aveva commesso crimini contro l’umanità e di chi li aveva subiti, attraverso la funzione riparatoria e salvifica della narrazione.

Con la fine della segregazione negli anni Novanta, il Sudafrica si trovò di fronte a una necessità cruciale: trovare un compromesso stabile tra due posizioni politiche diametralmente opposte, entrambe orientate a plasmare il futuro del Paese. In questo contesto delicato, l’istituzione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione emerse come mediatore tra le due fazioni principali: da un lato, il governo sudafricano deciso a voltare pagina e dimenticare gli anni dell’apartheid per costruire un nuovo Sudafrica; dall’altro, l’African National Congress e altre organizzazioni di liberazione, che insistevano nel ricordare e propendevano per la creazione di Tribunali speciali, simili a quelli di Norimberga, per processare coloro che avevano violato i diritti umani durante il regime segregazionista. È essenziale sottolineare che molte delle ragioni che hanno spinto verso la scelta della riconciliazione tra le parti sono di natura economica e politica. Gli Afrikaner, discendenti dei coloni olandesi, avevano gestito gran parte delle risorse e delle attività economiche del Sudafrica fino a quel momento. Nel caso di un miglioramento delle condizioni sociali della popolazione nera e di un possibile esodo della popolazione bianca dal Paese, si prevedeva inevitabilmente una lunga e dolorosa crisi economica.

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione, pertanto, si configurò come uno strumento cruciale per gestire questo difficile periodo di transizione. La sua funzione di mediatore consentì di bilanciare gli interessi contrastanti, cercando una via che portasse a una riconciliazione nazionale senza ignorare le gravi violazioni dei diritti umani avvenute durante l’apartheid. Inoltre, il contesto economico contribuì a motivare entrambe le parti a trovare un terreno comune, evitando una crisi che avrebbe potuto minare la stabilità del paese. In questo modo, la ricerca di un compromesso divenne essenziale per forgiare un futuro condiviso e scongiurare scenari di tensione e declino economico.

Ma la peculiarità di tale commissione è quella di perdonare se il carnefice ammette ed elenca le proprie colpe davanti alle vittime. Nel caso c’era l’amnistia. La scelta di concederla, offrendo la possibilità al carnefice di non pagare una pena, è stata un’azione razionale rispetto allo scopo, che si presume abbia dato la possibilità di raccogliere quanta più verità possibile, affinché la società potesse risollevarsi dal trauma subito, cercando di superarlo collettivamente. Analizzando il termine ‘amnistia’, si nota come esso abbia la stessa radice di ‘amnesia’. Lo Stato che decide di dimenticare. Paradossalmente, nel caso del Sudafrica, la concessione dell’amnistia ha rappresentato l’esatto contrario: è stata una delle fonti più importanti per ampliare la conoscenza dei fatti ed è una dimostrazione di come l’oblio possa essere evocato attraverso il lavoro della memoria, guidato dal perdono in modo pacifico e senza rancore.

Non è stato un percorso facile: l’accertamento della verità, l’ammissione delle colpe, il perdono, l’amnistia. Dal rapporto della Commissione del 1998 consegnato a Mandela emergono 21.800 terribili testimonianze rese da vittime e familiari, con 1.163 persecutori amnistiati. Non è stato semplice, ma grazie al processo di riconciliazione, la strada verso la pace è stata macchiata di molto meno sangue di quanto fosse lecito attendersi dopo una storia di atroce razzismo e feroce crudeltà. Al di là di aver evitato il bagno di sangue e di aver interrotto la spirale perversa dei regolamenti di conti, la Commissione ha segnato uno spartiacque soprattutto nella cultura giuridica internazionale. Non è un caso che nel 2015 l’Onu abbia adottato gli standard minimi di tutela in materia di trattamento penitenziario dei detenuti, le ‘Mandela Rules’, in onore proprio di Nelson Mandela. E non è un caso che alla seconda pagina del documento approvato compaia anche la ‘giustizia riparativa’.