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di Luigi Manconi

La Repubblica, 5 febbraio 2024

E se all’interno del nostro miserevole sistema penitenziario fosse consentito alla persona detenuta di svolgere i colloqui, anche intimi, con il partner? È quanto previsto da una sentenza della Consulta. L’amore in carcere. Non quello sognato, fantasticato, invidiato e non quello violento e clandestino; nemmeno quello rubato da mani e sguardi frettolosi e ansiosi e quello detto o urlato. Ma l’amore se si può dire vero, quello che fa incontrare due desideri e due corpi. Per i prigionieri di 31 Paesi europei è un diritto riconosciuto: e per loro, a determinate condizioni, sono disponibili “spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità” (Corte costituzionale 10/24).

E se anche all’interno del nostro miserevole sistema penitenziario fosse consentito alla persona detenuta di svolgere i colloqui, anche intimi, con il coniuge o il partner senza il controllo a vista del personale di custodia? È quanto previsto dalla recente sentenza della Consulta appena citata. Ma facciamo un passo indietro.

Penso che sarebbe stato giusto se all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il 27 gennaio, fosse stato presente in un ruolo di primo piano Beniamino Zuncheddu, l’allevatore sardo riconosciuto totalmente innocente dopo 33 anni di carcerazione.

Zuncheddu, il suo spirito esausto, il suo corpo dolente e la sua bocca sdentata - le patologie dentali costituiscono un marchio della vita ristretta - parlano della paurosa crisi della giustizia italiana meglio di quanto abbiano potuto fare i presidenti delle corti d’Appello e il ministro della Giustizia nei loro discorsi ufficiali.

Il caso dell’allevatore (in Sardegna, il nome non ancora in disuso del suo mestiere è “servo pastore”) è tutt’altro che raro. Se ci si limita a considerare i soli errori giudiziari che si sono risolti nella revisione del processo e nel riconoscimento dell’innocenza del condannato, si trovano 222 casi in tre decenni secondo i dati raccolti da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone.

Ma a questi vanno aggiunte le ingiuste detenzioni di quanti subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, per poi venire assolti in via definita: 30.778 dal 1991 a tutto il 2022. E questo mentre si ha notizia che, nei primi 35 giorni dell’anno in corso, già 15 detenuti si sono tolti la vita. E il sovraffollamento supera il numero di 60.000 detenuti rispetto a una capienza regolamentare di 51.249 posti e a una effettiva poco superiore ai 47.000.

In questa terra desolata che è il sistema penitenziario, un imprevisto segno di vita giunge da un luogo in apparenza lontano, lontanissimo come la Corte costituzionale. Quest’ultima ha accolto l’eccezione di costituzionalità sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi. Questi aveva sostenuto che il mancato riconoscimento del diritto alle relazioni intime rappresenta “una amputazione radicale di un elemento costitutivo della personalità”.

E secondo Andrea Pugiotto si tratta di una “primitiva punizione corporale”. È il punto cruciale. Come ripetutamente ribadito dalla stessa Consulta la pena detentiva consiste nella privazione o limitazione della libertà personale, ma non nella negazione o sospensione di tutti gli altri diritti dell’individuo, delle sue prerogative e delle sue facoltà. Insomma, “la pena comprime la libertà personale, ma non può sradicare le altre libertà con divieti generali e astratti ingiustificati”. In altre parole, “la pena è legittima in quanto irrogata “nella misura minima necessaria”“. Ne consegue che ogni altra afflizione non strettamente necessaria risulterà illegittima.

D’altra parte, mutilare il detenuto della sua sfera sentimentale e sessuale equivale a un ulteriore processo di infantilizzazione: la riduzione del recluso a uno stato di minorità e di minore età passa attraverso la rimozione di quella sua componente fondamentale che è, appunto, la capacità di amare.

Subordinazione e mortificazione della dignità personale coincidono. Al punto che, come scrive la Consulta, “la coattiva privazione dell’affettività sfocerebbe in un trattamento inumano e degradante, ledendo il diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare”. Ora, è prevedibile che, di fronte a una sentenza così limpida, si tenda a dire: giusto, ma non se ne farà nulla. È ragionevole temerlo, ma la Consulta è stata chiara: “Il legislatore dovrà provvedere, stabilendone i modi idonei, a garantire l’esercizio dell’affettività dei detenuti”.

Conosciamo la neghittosità, venata di autoritarismo e facile a diventare afasia e inerzia, del nostro Parlamento e, dunque, c’è poco da stare allegri. Ma, la Consulta, opportunamente, è andata oltre, affermando che deve essere l’amministrazione penitenziaria, anche in assenza di una legge, ad assicurare “un’ordinata attuazione dell’odierna decisione”. Tra tante voci di morte provenienti dalle carceri, ci sarà qualcuno che vorrà accogliere questo gracile ma irriducibile segno di vita?