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di Francesco Grignetti

La Stampa, 9 luglio 2023

Come picconare un ministro della Giustizia in cinque mosse. L’associazione nazionale magistrati, che certo non si sta tirando indietro dallo scontro, e risponde per le rime ad accuse e insinuazioni, ha voluto dedicare qualche attenzione anche al ddl Nordio che è stato appena licenziato dal consiglio dei ministri.

Quel ddl che abroga il reato di abuso di ufficio, riscrive il reato di traffico di influenze, costringe i magistrati a interrogare un indagato prima di arrestarlo, impone che le misure cautelari siano prese da un collegio di tre giudici, e così via. Ebbene, nulla si salva all’esame attento di chi esercita la giustizia tutti i giorni nei tribunali italiani. E conclude con un ironico appello affinché le “preannunciate modifiche siano oggetto di rimeditazione alla luce delle criticità”.

Prima picconata, l’abolizione del reato di abuso di ufficio è sostanzialmente “in contrasto con l’indirizzo politico perseguito a livello internazionale”, che invece procede in senso opposto, aumenta e irrigidisce tutti i reati che intaccano il buon andamento della pubblica amministrazione e in conclusione, secondo i togati, espone l’Italia “al rischio di procedure d’infrazione”.

Secondo colpo, la riformulazione del delitto di traffico di influenze. “Finirebbe - scrivono - con il rendere leciti comportamenti pericolosi per la formazione delle decisioni della pubblica amministrazione”. Il nuovo reato non li convince perché resterebbero fuori dal radar penali quei comportamenti di pubblici ufficiali “suscettibili di inquinare il processo decisionale e la comparazione degli interessi attinti dall’esercizio del potere pubblico”.

Ma quel che pare loro più grave sono le innovazioni procedurali. L’interrogatorio preventivo? “Rischia di determinare evidenti difficoltà di attuazione del controllo del giudice sull’iniziativa cautelare del requirente, specie nei procedimenti cumulativi”. Ravvedono cioè una curiosa sovrapposizione tra interrogatorio di garanzia da parte del pubblico ministero prima di richiedere un arresto e l’altro interrogatorio di garanzia che spetta invece al giudice in seguito a un arresto. La dottrina lo definisce un momento fondamentale del procedimento cautelare, in quanto rappresenta il primo contatto che la persona sottoposta a misura cautelare ha con il giudice a garanzia del più ampio diritto di difesa dell’indagato. Come convivranno i due interrogatori di garanzia? I magistrati vedono solo un gran pasticcio. E soprattutto che avrà “un effetto devastante sugli uffici”.

C’è poi la prospettiva di passare dal gip monocratico a un collegio di 3 magistrati per decidere ogni misura cautelare. “Appare di difficile attuazione già nei grandi tribunali e sarà pressoché impossibile da gestire negli uffici medio-piccoli, al netto dell’aumento esponenziale delle ipotesi di incompatibilità che, inevitabilmente, ne conseguiranno”. L’effetto paradossale sarà l’ingorgo di procedimenti e un allungamento dei tempi del processo. “In chiara violazione degli obiettivi del PNRR”. Anche l’escamotage di distribuire il lavoro tra giudici secondo le tabelle infra-distrettuali “non tiene conto di difficoltà operative fin troppo evidenti non solo quanto alla gestione di ogni fase relativa alla misura cautelare ma anche, se non soprattutto, alla funzionalità dei singoli uffici dei magistrati applicati al collegio, chiamati a spostarsi da una sede all’altra, trascurando le urgenze del proprio ufficio”.

In ultimo, la limitazione del potere di appello del pubblico ministero. “Anche alla luce dell’ampliamento delle ipotesi di giudizio a citazione diretta previsto dalla riforma Cartabia, data l’ampiezza del divieto di impugnazione rischia di entrare in frizione con i principi scolpiti nella sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007, che già si pronunciò sulla precedente legge cd. Pecorella, sostanzialmente nel medesimo senso”. E insomma si prefigura una incostituzionalità che finirà quanto prima davanti alla Corte costituzionale.