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di Giovanni Maria Flick

Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2023

Diritto e attualità. La cattura di Matteo Messina Denaro ripropone un interrogativo di fondo sulla giustizia penale e sui confini entro i quali deve concentrare la propria azione. I rischi e le tentazioni di strumentalizzare la cattura di Matteo Messina Denaro sono forti e ricalcano in parte i toni e i contenuti di un recente dibattito tra il giornalista Alessandro Barbano e il Procuratore Nazionale Antimafia Giovanni Melillo in occasione della presentazione del libro scritto dal primo, “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”.

In sintesi Barbano ha analizzato quelle che definisce le contraddizioni del c.d. Codice Antimafia, motivandole attraverso il richiamo a una minuziosa e clamorosa serie di errori (effettivi o presunti) nella sua applicazione. È arrivato a una conclusione da lui stesso definita “impegnativa (...) l’Antimafia, intesa nella sua complessa realtà istituzionale e simbolica, nella sua operatività e nel suo racconto, è un inganno... in senso politico e non morale... al netto della buona fede e dell’impegno” di quanti combattono il crimine.

Barbano ha concluso che l’Antimafia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; che essa ha superato i confini della legalità, con il ricorso alle misure emergenziali, alla cultura del sospetto; alla compressione delle garanzie, alla delazione, alla ricerca di un consenso fondato sull’allarmismo e sul degrado della cultura giuridica e sulla perdita del principio di legalità e di tassatività delle norme giuridiche, con il sostegno di un processo mediatico e di un “moralismo intransigente” delle organizzazioni di volontariato come Libera, sconfinate nella politica.

Melillo ha replicato ricordando la particolare ed elevata pericolosità della criminalità organizzata nel nostro Paese e la conseguente necessità di strumenti penetranti di indagine per fronteggiarla specificamente anche nel campo dell’economia; una pericolosità che si manifesta altresì a livello internazionale con ricchezza economica ed espansione speculativa non sempre avvertite dalla opinione politica e da quella pubblica.

Tuttavia Melillo ha riconosciuto il pericolo dei “cori mediatici”; quello di dilatare l’area di specialità della azione di contrasto a mafia e terrorismo; l’impossibilità per il giudice di “amministrare” patrimoni illeciti; la necessità di una prevenzione della criminalità in sede politica e sociale, prima e al di là del compito della magistratura e della polizia. Infine ha contestato l’esattezza di taluni fra gli episodi descritti nel libro come errori ed eccessi. Al di là dei fatti specifici, che non conosco, la valutazione severa di ordine generale di Barbano mi sembra condizionata dalla sua premessa: l’elenco di una serie di situazioni di fatto specifiche, fra loro non omogenee e diverse.

Esse sembrano idonee piuttosto a denunziare eccessi ed errori nella applicazione della legge; ambiguità nella formulazione di quest’ultima che ne consente dilatazioni interpretative; indifferenza se non insofferenza rispetto a taluni principi costituzionali nella loro interpretazione tradizionale. Peraltro destano una forte perplessità sotto il profilo della coerenza con i principi costituzionali del sistema penale: il passaggio dalla cultura della “prova” e della “condanna alla pena definitiva” per un delitto alla cultura del “sospetto” e dell’”indizio” per la misura di prevenzione; la dilatazione di quest’ultima dalla “pericolosità” della persona a quella del denaro in sé o degli eredi di quella persona; la applicazione delle misure interdittive all’impresa, per il sospetto di un suo condizionamento mafioso, rischiando di trasformare il magistrato o il prefetto - tramite i loro ausiliari - in “super controllori” dell’impresa.

Lasciano altrettanto perplessi il ricorso consolidato al c.d. “doppio binario” nelle indagini, nel processo e nell’esecuzione della pena; l’estensione delle misure di “diritto antimafia o antiterrorismo” alle ipotesi di corruzione sul presupposto di una eguale gravità dei reati in ciascuna di queste materie; l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che, per impedire giustamente la comunicazione tra un detenuto e l’organizzazione criminale all’esterno, trasforma la reclusione in un “carcere duro”; il divieto di accesso alle misure alternative al carcere per chi “non collabora” e il c.d. ergastolo ostativo. Sono tutte soluzioni che - soprattutto in momenti come questo - trovano entusiastica ed enfatica adesione: sia da parte di chi non conosce la tecnicalità, la complessità e spesso la tortuosità di tutti questi strumenti; sia da parte di chi, per professione, deve applicare quelle misure e teme che esse vengano ridimensionate.

I contrasti riemersi fra politica e giustizia e le accuse reciproche, dopo un primo momento di doveroso entusiasmo di tutti, ripropongono un interrogativo più di fondo, rispetto a quelli che si riferiscono più specificamente alla lotta alla mafia. Nell’assetto costituzionale la giustizia penale è chiaramente strutturata in una prospettiva individuale: una responsabilità personale; una tassatività del fatto previsto e punito; un trattamento personale nell’esecuzione della pena; una serie di garanzie calibrate sulla persona.

La trasformazione dell’apparato giudiziario in una struttura per affrontare un “fenomeno sociale” anziché “un fatto e una persona” evoca problemi legati alla discussione sulla funzione sussidiaria della magistratura. Essa propone una domanda di fondo, che ritorna anche in queste vicende: se le garanzie riconosciute dalla Costituzione alla persona in sede penale (sostanziale, processuale, di esecuzione della pena) siano ancora valide e rispettate; o se si diluiscano sino a sparire quando la persona è vista non in sé, ma come espressione di un fenomeno e di un sistema criminale da contrastare con ogni mezzo, per la sua pericolosità.

Tornando alla concretezza di questi giorni, mi sembra che la cattura di un pericoloso latitante non possa essere l’occasione per legittimare o al contrario per contestare il ricorso alla “panpenalizzazione” e in essa alla “pancarcerizzazione”. In uno Stato costituzionale di diritto dovrebbe prevalere il criterio della extrema ratio per la prima e soprattutto per la seconda; dovrebbero rigorosamente evitarsi eccessi ed errori nella applicazione di legge che incidono sulla dignità e sulla libertà delle persone e che pertanto non possono prestarsi a dilatazione e ad interpretazioni creative.

Posso infine augurarmi che la vittoria della legalità con la cattura di Matteo Messina Denaro, realizzata grazie all’impegno e alla capacità di magistrati e carabinieri, non diventi l’ennesima occasione per una strumentalizzazione - sia di adesione, sia al contrario di opposizione - delle risposte agli interrogativi ricorrenti sulla efficacia e prima ancora sull’ammissibilità e sui limiti degli strumenti legislativi acquisiti con l’esperienza in quella lotta.

Sono la ricerca del denaro, come segnalato con intuizione e intelligenza da Giovanni Falcone (per la mafia); la genialità investigativa di Carlo Alberto Dalla Chiesa (per il terrorismo); l’utilizzo nelle indagini di strumenti tecnologici sempre più progrediti per vincere l’omertà fra cui le intercettazioni, con un loro rigoroso controllo giudiziario; le tecniche finanziarie sempre più sofisticate per svelare le tecniche di riciclaggio del “denaro sporco” e della sua infiltrazione nell’economia sana. Lo dobbiamo alle vittime incolpevoli della criminalità organizzata, ai magistrati e a tutti gli altri “caduti nell’adempimento del dovere” della lotta ad essa.