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di Simona Musco

Il Dubbio, 12 marzo 2024

Per i giudici costituzionali è una “patologia” presentare una persona con colpevole tramite le richieste e o i decreti di archiviazione che avvalorano la tesi accusatoria. Richieste o decreti di archiviazione che, anziché limitarsi a ricostruire il fatto nei termini strettamente necessari a verificare l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, esprimono giudizi sulla colpevolezza dell’interessato, violano “in maniera eclatante” la presunzione di non colpevolezza e il diritto di difesa. Un diritto “in radice negato dall’affermazione, da parte del pubblico ministero o del gip, del carattere veritiero, o comunque affidabile, degli elementi acquisiti nel corso di un’indagine, senza che sia assicurata all’indagato - che potrebbe anzi essere rimasto del tutto ignaro dell’indagine - alcuna effettiva possibilità di contraddirli, ed eventualmente di provare il contrario”.

A stabilire questo importantissimo principio è la Corte costituzionale, che si è pronunciata sulla questione sollevata dal Tribunale di Lecce, al quale si è rivolto un magistrato chiedendo di vedersi riconosciuto il diritto di rinunciare alla prescrizione, per potersi difendere nel merito nell’ambito di un’indagine a suo carico conclusasi con l’archiviazione. Archiviazione di cui solo per caso era venuto a conoscenza e disposta con un decreto che, di fatto, avvalorava l’ipotesi accusatoria, esprimendo un giudizio di colpevolezza nei suoi confronti senza possibilità di contraddittorio. Nella richiesta di archiviazione, infatti, i pm sottolineavano come l’ipotesi mossa nei confronti del magistrato - accusato di corruzione da parte di un imprenditore - fosse suffragata da “molteplici elementi di riscontro documentali”, puntualmente elencati nella richiesta di archiviazione. Ragioni fatte proprie dal gip, che le ha “ritenute corrette in fatto e in diritto e, perciò, pienamente condivise”.

Non avendo mai saputo dell’indagine, il magistrato si lamentava di non essere stato messo in condizione di rinunciare alla prescrizione ed esercitare, dunque, il proprio “diritto al processo e, quindi, alla prova”, avendo interesse a essere giudicato nel merito delle accuse, date le possibili gravi conseguenze per la sua sfera professionale e lavorativa. Nella memoria illustrativa del suo difensore, infatti, è stato evidenziato come non si possa dire “che solo l’imputato subisce pregiudizi per il fatto di essere sottoposto a processo: al contrario - e a dirlo è un magistrato, per un volta, ndr -, nella grande maggioranza dei casi, è proprio la fase delle indagini preliminari a lasciare “una macchia” indelebile sulla persona dell’indagato”, che egli non potrebbe neppure tentare di eliminare, “non sussistendo alcun obbligo di notifica della richiesta di archiviazione per prescrizione nei suoi confronti ed essendo quindi a lui impedito di rinunciare alla prescrizione”.

E il pregiudizio, sostiene ancora il magistrato, è dimostrato dal fatto che tale provvedimento di archiviazione è stato utilizzato dalla Quinta Commissione del Csm a seguito della sua domanda di conferimento di un incarico direttivo e alla sua audizione: stando alla delibera, secondo i membri del Csm le sue argomentazioni sarebbero state idonee “in modo incontrovertibile”, allo stato, ad “attenuare la gravità del quadro probatorio quale risulta dalla menzionata richiesta di archiviazione (condivisa dal gip)”.

Per la Consulta, non esisterebbe un diritto a rinunciare alla prescrizione in fase di indagine, in quanto “né dalla mera iscrizione nel registro delle notizie di reato, né dal provvedimento di archiviazione” andrebbe fatta discendere “alcuna conseguenza giuridica pregiudizievole per l’interessato”. Se questo è vero sulla carta, però, l’esperienza dimostra che le cose vanno in maniera radicalmente diversa nella vita reale. Tant’è che la stessa Corte costituzionale parla di “patologia”, laddove un’archiviazione per prescrizione si dilunga “in apprezzamenti sulla fondatezza della notitia criminis stessa”. “Simili provvedimenti - afferma la Corte - sono gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona interessata; e devono pertanto essere rimossi attraverso appropriati rimedi processuali”. Richieste o decreti di archiviazione così motivati, infatti, perdono il “carattere di “neutralità” che li dovrebbe caratterizzare, e sono in concreto suscettibili di produrre - ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade - gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate”.

Tra i rimedi la Consulta indica la direttiva sulla presunzione d’innocenza, recepita dall’Italia a novembre 2021. Una direttiva mal digerita dai più - soprattutto stampa e magistratura - ma essenziale, sembra dire la Consulta, dal momento che provvedimenti come l’archiviazione oggetto di questa sentenza “evidenziano, a ben guardare, una vera e propria deviazione del provvedimento rispetto allo scopo tipico dell’atto”. Il miglior riassunto di questa importantissima pronuncia sta dunque nella sua conclusione: “La persona sottoposta alle indagini - afferma la Corte -, se non ha in via generale il diritto di rinunciarvi, ha invece il pieno diritto di avvalersi della prescrizione, che è posta a tutela anche del suo soggettivo interesse a essere lasciata in pace dalla pretesa punitiva statale, rimasta inattiva per un rilevante lasso di tempo dalla commissione del fatto a lei attribuito, senza che tale legittima scelta di avvalersi della prescrizione comporti, per l’interessato, la perdita del suo diritto fondamentale a non essere pubblicamente additato come colpevole in assenza di un accertamento giudiziale”.