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di Errico Novi

Il Dubbio, 20 settembre 2023

Audito sul ddl Nordio in Commissione al Senato, persino il presidente emerito della Consulta che è stato tra i primi giuristi a schierarsi contro il “fine pena mai”, ha bocciato la soppressione del 323. Ma sul piatto c’è lo stop al Pnrr. Ecco una bella occasione che governo e maggioranza hanno di compiere una scelta politica. Non tecnica ma politica. Sulla giustizia, of course, la materia che più di tutte soggiace al parere dei tecnici, o per meglio dire dei magistrati. L’argomento in questione è, in particolare, l’abuso d’ufficio. Che, anche un po’ a sorpresa, continua a suscitare non solo la perplessità ma addirittura la netta critica di autorevolissimi giuristi, anche di ispirazione garantista.

Se un riferimento indiscutibile per le battaglie sulle garanzie nel diritto penale è infatti quel Vittorio Manes che una settimana fa ha illustrato più di un caveat, ai senatori della commissione Giustizia, sulla soppressione dell’articolo 323, ieri nello stesso organismo di Palazzo Madama presieduto da Giulia Buongiorno dove sono in corso le audizioni sul ddl Nordio, è arrivata la ancora più drastica contrarietà di Giorgio Lattanzi. Cioè di un presidente emerito della Consulta che non solo è stato, con Giovanni Maria Flick, tra i primi a battersi per il “diritto alla speranza”, e ha aperto così la strada alla storica pronuncia di incostituzionalità sull’ergastolo ostativo del 2021: Lattanzi è anche il “padre” della mai troppo evocata “Relazione sulla riforma penale” che conteneva le proposte, consegnate a Marta Cartabia, in cui c’era di tutto, e molto di quanto non è ancora stato fatto, dal ripristino della prescrizione sostanziale all’inappellabilità delle assoluzioni (ora rilanciata da Nordio).

Ebbene, pure lui, il maestro del diritto penale a cui la stessa Cartabia si rivolge come al “suo” Presidente, ieri si è detto “sorpreso” per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. “È un illecito penale direi tradizionale, che preserva l’imparzialità della pubblica amministrazione”, ha esordito Lattanzi nel proprio intervento in commissione Giustizia. Ha confutato le tesi sostenute da via Arenula con un’ampia “controdeduzione”, esposta dopo aver citato la relazione con cui Carlo Nordio e i suoi tecnici hanno motivato la misura.

Ma prima ancora di entrare nel merito e nel dettaglio delle obiezioni di Lattanzi, si può considerare chiara a questo punto una cosa: sopprimere il reato che suscita la “paura della firma” è, nella migliore delle ipotesi, un salto nel buio, rispetto alla tenuta formale dell’ordinamento, forse addirittura uno spericolato azzardo.

Eppure le ragioni ultime che spingono Esecutivo e maggioranza a insistere perché quel reato sparisca sono sistemiche e allo stesso tempo contingenti. Lo ha chiarito il segretario della commissione Giustizia del Senato Sergio Rastrelli, autorevole esponente di Fratelli d’Italia, in un’intervista al Dubbio: il partito della premier “vuole una pubblica amministrazione efficiente e non paralizzata dalla paura”. Vuol dire che Giorgia Meloni, il suo partito e il suo guardasigilli considerano il triennio scarso che si concluderà a metà 2026, cioè la fase cruciale per l’attuazione del Pnrr, come una contingenza irripetibile che richiede, appunto, un intervento di sistema: liberare gli amministratori, i sindaci innanzitutto, dal freno a mano invisibile costituito dall’abuso d’ufficio, che rischia di rallentare il Piano, ingolfare la realizzazione delle opere e far andare in malora risorse impossibili da riottenere.

Non sarebbe male se, in linea con quanto sostenuto da Rastrelli, si compisse almeno per una volta, sulla giustizia, una forzatura in senso garantista. Non sarebbe male considerato che di forzature in senso manettaro se ne sono contate parecchie. Da ultima, quella che si consuma in queste ore alla Camera, dov’è in fase di conversione la norma del Dl Intercettazioni che rende retroattiva la nuova “stretta” sugli ascolti. Ipotesi bocciata dalla quasi totalità dei costituzionalisti eppure difesa contro ogni logica giuridica dal governo, pur di esaudire l’appello dei pm antimafia. Sull’abuso d’ufficio, lo “stato d’eccezione” sarebbe una volta tanto proclamato in base a una logica liberale anziché da guerra permanente.

Non poteva essere Lattanzi, d’altra parte, a suggerire tanta realpolitik in materia penale. E infatti ieri il presidente emerito della Consulta si è comportato da interprete rigoroso della scienza giuridica, come lo era stato anche quando scardinò il paradosso della liberazione condizionale concessa agli ergastolani di mafia solo se collaborano. “Mi ha sorpreso che nella relazione si faccia riferimento solo allo squilibrio fra le poche condanne definitive, 18 nel 2021, a fronte delle 4745 iscrizioni a registro avvenute nello stresso anno. Si parla solo di questo. Senza considerare la gravità del fatto. Di condotte attualmente considerate violative di legge, consistenti in un arricchimento illecito o in un danno arrecato ad altri. Non si fa parola”, ha insistito Lattanzi, “dei diversi gradi di offensività di tali condotte. Nonostante si tratti di fattispecie che la Convenzione Onu del 2005 sulla corruzione impegna a prevedere”.

Qui Lattanzi non si “inoltra” nel dettaglio della Convenzione, come invece aveva fatto una settimana fa Manes, il quale aveva ricordato che se per i reati di corruzione il testo inglese sottoscritto dall’Italia all’Onu è assertivo (i Paesi aderenti “shall adopt”), nel caso dell’abuso d’ufficio e altre categorie di illecito è al più esortativo (i Paesi “shall consider adopting”). Lattanzi ha rafforzato però la propria critica con un altro riferimento internazionale, la citazione della proposta di direttiva Ue anticorruzione in cui pure l’abuso d’ufficio è richiamato (proposta su cui il Parlamento italiano ha espresso parere critico proprio per l’indicazione sull’abuso d’ufficio, più stringente rispetto alla Convenzione Onu).

In realtà le audizioni di ieri sono state arricchite da diversi altri preziosi spunti, offerti sia da Lattanzi che dagli altri auditi, vale a dire il procuratore aggiunto di Santa Maria Capua Vetere Pier Paolo Bruni e il professor Giorgio Spangher (ne daremo conto in modo specifico nei prossimi giorni, ndr). Resta l’impressione che l’addio, almeno temporaneo, all’abuso d’ufficio sarebbe un bel segnale di rottura con la cultura della delazione, in nome della quale vengono partoriti, e protocollati in Procura, le migliaia di esposti dai quali i pm sono “obbligati” a indagare (e rovinare) il sindaco o l’assessore di turno. Dietro quella velenosa cultura della delazione c’è l’antipolitica. E cominciare a sbarazzarsi di un così pernicioso simulacro con una provvidenziale forzatura sull’abuso d’ufficio, ecco, davvero non sarebbe male.