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di Alessandro Campi

Il Messaggero, 9 ottobre 2023

La polemica che occupa la cronaca politica di questi giorni sembra una riedizione della classica storiella del dito e della luna. Cosa indicare come prioritario nel caso che sta contrapponendo il ministro Matteo Salvini (e con lui il governo di centrodestra) alla giudice catanese Iolanda Apostolico? Il principio ordinamentale della terzietà del giudice, che si vorrebbe sempre distinto ed equidistante dalle parti su cui ci si pronuncia, o l’agitazione propagandistica e strumentale messa in opera da un leader politico con toni in effetti forzati?

Detto diversamente, è più grave che un magistrato partecipi a una protesta di piazza contro il governo, per poi pronunciarsi contro di esso sulla stessa materia oggetto della protesta, o che venga diffuso un filmato che, ritraendola in prima fila nella manifestazione, ne mette seriamente in discussione l’imparzialità?

Sui giornali si stanno leggendo in questi giorni interventi accorati sui rischi di una deriva politica illiberale. Si parla di attacchi alla magistratura che minano le fondamenta della democrazia repubblicana e di un pericoloso ritorno ai dossieraggi di Stato. Si sprecano le solite citazioni di Piero Calamandrei e degli articoli della Costituzione che tutelano l’indipendenza dei giudici. Una campagna ben orchestrata, come tante in passato nello stesso stile, che glissa però colpevolmente su un punto tanto semplice quanto dirimente: la passione ideologico-militante che brucia nel petto di una frazione della magistratura italiana a rischio d’offuscarne il rigore professionale e la legittimità funzionale nel quadro dei diversi poteri dello Stato.

È un problema, quello della magistratura politicizzata che non nasconde di esserlo e agisce di conseguenza, che ci si trascina da trent’anni almeno, durante i quali - per chi non se fosse accorto - si è però realizzato un cambio di umore collettivo che dovrebbe far riflettere tutti coloro che oggi indossano una toga e tengono seriamente al loro ruolo istituzionale e agli equilibri democratici.

Dall’inizio di Tangentopoli, per una lunga fase, la figura del magistrato combattente a difesa dei cittadini contro i soprusi operati dalla classe politica ha goduto una vasta simpatia. Un pezzo significativo dell’opinione pubblica italiana ha effettivamente creduto che toccasse a procuratori e giudici salvare la democrazia dai nemici che la stavano corrodendo dall’interno.

Ma quest’immagine redentiva e tutelare, di un potere moralmente integro e professionalmente capace chiamato a supplirne uno corrotto e impotente, lentamente è venuta meno. E non perché, come si dice, la politica, dopo molti scacchi, sia stata capace di prendersi la sua terribile vendetta su chi l’aveva messa alla sbarra. Ma per ragioni tutte dipendenti dal modo debordante rispetto ai suoi reali compiti con cui la magistratura, sotto la spinta del favore popolare, ha finito per interpretare la sua azione: un misto di pedagogia civica, moralismo di Stato dal sapore giacobino, spirito missionario e ambizioni da contropotere politico senza mandato elettorale.

Un eccesso di protagonismo mediatico da parte di singoli appartenenti al corpo giudiziario, la manifesta collusione di alcuni di loro con partiti e movimenti politici in una chiave spesso antagonistica e radicale, troppe inchieste e processi che spesso si sono risolti in grandi passerelle mediatiche, cittadini che invece di sentirsi protetti hanno preso a sentirsi minacciati da una giustizia dai tratti inquisitoriali… Insomma, il vento è rapidamente cambiato. Complici anche le faide interne alla corporazione e i connessi scandali, l’immagine complessiva della magistratura italiana ne è uscita sempre più compromessa, alla stregua di una casta che mentre attacca i privilegi della politica si tiene ben stretti i propri, che si arroga il diritto di giudicare tutti senza mai voler essere giudicata, che non ritiene di dover pagare alcun prezzo per i suoi errori spesso marchiani.

La sua rappresentazione quasi eroica ha lasciato il posto negli ultimi anni a un disincanto crescente dei cittadini verso l’intero universo della giustizia, del quale chi opera al suo interno probabilmente non si rende completamente conto, come se l’ossequio formale ad essa dovuto fosse in sé un segnale di fiducia incondizionata. Evidentemente, si immagina che il problema dell’Italia sia ancora rappresentato solo e soltanto dalla politica: valutata ancora inefficiente e rapace, dunque non affidabile, a dispetto dei terremoti che l’hanno attraversata. Che è però esattamente il sentimento che il cittadino medio ormai riserva anche a chi in sua vece dovrebbe far rispettare la legge.

E’ su questo sfondo di diffidenza generalizzata, che ormai coinvolge anche la magistratura al di là delle sue complessive responsabilità, visto che l’ala militante e settaria rappresenta comunque una minoranza per quanto mediaticamente ben sostenuta, che la vicenda della giudice Apostolico va inquadrata. Oggi più che mai, alla luce della storia controversa che abbiamo alle spalle in materia di rapporti tra politica e giustizia, un giudice palesemente schierato per definizione non può dare garanzie d’equilibrio e autonomia. Qualunque sua decisione diviene sospetta e giustifica - esattamente come è accaduto - la reazione della controparte, in questo caso politica, che si ritiene oggetto di una valutazione discriminatoria. La cosa grave è che la politica ha strumenti di attacco che un cittadino normale, che a sua volta rischia di non sentirsi tutelato da un giudice schierato più a difesa delle sue idee che della legge, non possiede.

L’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono l’altra faccia della sua imparzialità - che deve essere, oltre che effettiva, anche percepita e sentita dalle parti. Esattamente quel che non accade in Italia da anni per responsabilità di una minoranza che sarebbe interesse dell’intero corpo giudiziario, a questo punto, isolare e neutralizzare, invece di abbandonarsi, come successo anche in quest’occasione, a riflessi di autodifesa corporativa o alle solite lamentazioni contro gli attacchi di un potere che mai nella storia è stato tanto debole: un cane che abbaia senza mordere se è vero che in trent’anni la riforma integrale della giustizia è rimasto solo un paragrafo nei programmi elettorali dei partiti, senza mai trovare attuazione.

Di tutto questo bisognerebbe dunque parlare (la luna). Poi, se si vuole, anche di chi ha girato e diffuso le immagini galeotte (il dito). Invertire le priorità è solo un banale trucco a fini di polemica politica.