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di Enrico Franco

 

Corriere del Trentino, 14 novembre 2019

 

Uno slogan, purtroppo, è assai più efficace di un ragionamento basato su dati statistici. "Buttiamo via la chiave", riferito ai detenuti, ha un indubitabile appeal anche tra chi non è ossessionato dal tema della sicurezza. Di fronte a crimini particolarmente odiosi o a recidivi incalliti, è umano pensare che la soluzione migliore sia estromettere una volta per tutte dalla comunità il "criminale".

Cresciuti con la cultura del premio per le buone azioni e del castigo per le marachelle, siamo poi indotti a ritenere che la pena debba essere giustamente severa e che, dunque, la prigione non debba essere confortevole (come se potesse diventarlo un luogo in cui si è privati della libertà non solo di uscire, ma anche di accendere o spegnere la luce).

Eppure, se neghiamo quello che l'avvocato Andrea de Bertolini chiama il "diritto alla speranza", allora a rimetterci è prima di tutto la società. Lo ricordava Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera di lunedì: su 55.000 misure di esecuzione di pena alternative al carcere nel 2017, solo lo 0,67% (372 casi) è stato revocato a causa della commissione di un reato. Parallelamente, sempre nel 2017, si è appurato che il 68% dei reclusi in cella torna a delinquere, mentre ricade nel "vizio" appena il 19% di chi sconta la condanna in altro modo. Trento ha investito in un nuovo penitenziario ma lo Stato ha tradito la promessa di evitare il sovraffollamento.

Mentre quello di Bolzano come noto è in condizioni inaccettabili (anche per il personale di sorveglianza) e il cantiere di quello nuovo rimane un miraggio a causa delle difficoltà di chi ha vinto la gara per realizzarlo e gestirlo. Invochiamo più telecamere e più arresti, tuttavia i problemi delle due strutture non ci appassionano, quasi che fossero ininfluenti sul piano della nostra sicurezza. È vero il contrario.

Lo ha dimostrato lunedì - in un convegno organizzato dall'Ordine regionale dei giornalisti, dall'Ordine degli avvocati e dall'Associazione di volontariato "Pesce di pace" - Abdelaaziz Aamri, cittadino marocchino che, dopo aver lavorato per una dozzina di anni in Spagna, è approdato in Italia per sfuggire alla crisi economica iberica. Qui non ha trovato la fortuna, bensì finte solidarietà che lo hanno coinvolto in un grave reato: non essendo un "vero" criminale, è stato subito catturato e condannato a otto anni di reclusione. Aziz non chiede comprensione, afferma di aver sbagliato e vuole espiare la colpa. Però avverte: "Una società senza perdono è una società senza convivenza".

Un messaggio potente: crediamo che l'odio sia rivolto contro gli altri, invece ce lo troviamo difronte quando guidiamo nel traffico cittadino, quando assistiamo a un evento sportivo, perfino al supermercato se qualcuno crede di essere stato "sorpassato" nella coda al banco dei formaggi. La rabbia, infatti, è un'erbaccia: se prende piede in un angolo del terreno, si espande senza limiti. Aziz non lascia spazio alla negatività.

La sua redenzione passa attraverso la collaborazione con Nadia De Lazzari di "Pesce di pace": impara l'italiano, ottiene con orgoglio la licenza di terza media e scrive un libretto autofinanziato dal titolo significativo: "Mai più qui - La forza di ricominciare". Dopo la prefazione del giornalista Alberto Folgheraiter, ci sono tra le altre quelle dell'arcivescovo di Trento, Lauro Tisi, dell'imam Yahya Pallavicini e del rabbino Yosef Labi.

Nadia De Lazzari nota che, con la crescita della radicalizzazione islamica nei penitenziari, la via del dialogo imboccata da Aziz è invisa. Lui lo sa ma va avanti e agli studenti che lo ascoltano, a sorpresa, chiede di essere solidali con Liliana Segre, l'ex bambina deportata oggi senatrice a vita, costretta a essere scortata dopo le centinaia di minacce ricevute a causa del suo impegno di testimonianza. Perché se c'è chi impugna la religione come un'arma, questo musulmano vede negli ebrei e nei cattolici solo fratelli di fede diversa. Un esempio illuminante.