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di Dario Di Vico

Corriere della Sera, 2 maggio 2022

Sarebbe necessario rimettere in piedi una cultura politica della mediazione sociale e non delegare al populismo la rappresentanza dei diseguali.

Forse è arrivato il momento, almeno a livello di dibattito pubblico, di fare un passo in avanti. Continuare a sostenere, come molti di noi fanno, che Trump ha perso ma i suoi elettori hanno vinto e, ancora, che Macron ha vinto ma chi ha votato Le Pen aveva ragione, ha poco costrutto e in qualche caso nasconde una discreta dose di ipocrisia. Detto questo però le società aperte sono chiamate a rispondere agli interrogativi sottesi a quei giudizi. Se i nostri sistemi di democrazia e trasparenza continuano ad avere paura dei loro elettori, se i partiti responsabili temono il giudizio irreversibile dei cittadini meno protetti, se ogni tornata elettorale nei Paesi dell’Ovest finisce per essere un’alternativa tra continuità e baratro, c’è qualcosa da mettere a punto. Un alfabeto da riformulare, alcune priorità da ridefinire. Quei timori di instabilità o peggio quelle Vandee sempre alle porte finiscono per colpire la stessa ragione sociale delle nostre democrazie ovvero il loro grado di apertura, di scalabilità. Ma come può prosperare una democrazia senza demos?

Per uscire da questo cul de sac nel quale le società aperte rischiano l’asfissia serve forse ribaltare la prospettiva, smetterla di temere il rancore e il disagio ed elaborare una nuova visione dello spazio sociale valida almeno per questi complicatissimi anni Venti. Non si tratta di sventolare parole d’ordine che sanno inevitabilmente di ossimoro (il riformismo radicale) né tantomeno di buttarsi opportunisticamente a sinistra come ironizzava Totò.

Si tratta invece di rimettere in piedi una cultura politica della mediazione sociale e non delegare al populismo la rappresentanza dei diseguali. Il tutto ovviamente deve essere però rapportato ai cambiamenti strutturali del nostro tempo e in una chiave che veda prevalere la ricerca di soluzioni piuttosto che la giaculatoria dei problemi. Già se, approfittando della festa del Primo Maggio, prendessimo in esame le trasformazioni del lavoro causate dalla sosta forzata della pandemia e dalla straordinaria alfabetizzazione tecnologica che ha investito gli italiani, la ricerca di un nuovo spazio sociale sarebbe meno peregrina. Incontreremmo figure nuove che non c’erano nelle fotografie di solo qualche anno fa: lo smart worker, il lavoratore che vuole scegliersi il posto di lavoro (Pietro Ichino docet), il fattorino Amazon e via di questo passo. E incontreremmo anche temi che non conoscevamo come la depressione causa di inabilità lavorativa. Per dialogare con questa nuova soggettività va al più presto aggiornata la riflessione sulla localizzazione del lavoro, sulla sua durata effettiva, sulla flessibilità che non appare più una parola malata, sulle tutele di nuovo conio.

Con tutto il rispetto che si può portare al sindacato (senza il suo concorso non si firmano i patti sociali di cui le società occidentali hanno bisogno) dobbiamo sapere che non ha più il monopolio della rappresentanza degli esclusi come nel secolo scorso, vuoi perché il paesaggio sociale è diventato infinitamente più complesso rispetto alla sola cittadella del lavoro tutelato vuoi perché l’offensiva del populismo ha inferto molti colpi alla cultura della mediazione sociale. Per cui ben venga un sindacalismo che recuperi la forza morale del passato (in proposito su YouTube c’è uno straordinario video in cui il sociologo Bruno Manghi racconta l’antropologia dei dirigenti Cisl dei tempi di Carniti) ma deve essere cosciente di impersonare uno dei soggetti del nuovo spazio sociale, non l’unico.

Un ruolo, infatti, andrà anche riconosciuto alla rappresentanza del lavoro autonomo, eterno figlio di un dio minore. Tutte le ricerche avevano preconizzato che nella società post-industriale l’occupazione degli indipendenti sarebbe aumentata a volontà per effetto dei processi di esternalizzazione varati dalle grandi organizzazioni. In Italia, purtroppo, non è avvenuto niente di ciò sia dal punto di vista quantitativo sia sul versante della qualità. Abbiamo un impresentabile terziario low cost che ci fa apparire dei nani della società dei servizi a confronto dei partner europei. Ed è proprio questo settore a fare la differenza in negativo in termini di export, valore aggiunto, produttività al cospetto di un manifatturiero invece pienamente inserito nel triangolo renano con Francia e Germania. Nel riconoscere piena dignità al lavoro autonomo c’è anche la chiave per incidere sul conflitto città-campagna, che vede gli elettori urbani premiare le forze della responsabilità e dell’innovazione e il ceto medio dei piccoli centri affidarsi al populismo o alla destra anti-sistema.

Un altro soggetto decisivo nella riorganizzazione dello spazio sociale è sicuramente il Terzo settore. Come ben sappiamo negli anni della pandemia ha svolto ruoli di supplenza delle istituzioni colte di sorpresa dalla diffusione del virus, ha saputo realizzare una convergenza di sforzi per cui a Milano hanno lavorato fianco a fianco iniziative private come Pane Quotidiano, le Caritas ed Emergency. Nella gestione della tragedia dei profughi ucraini ancora una volta il Terzo settore sta dando ampia prova di sé grazie alla professionalità del suo capitale umano ma anche grazie al fatto che, a differenza di altre organizzazioni, le Ong non sono a digiuno di politica internazionale, anzi operano già in un contesto globale.

Se in estrema sintesi queste sono le condizioni di partenza e i soggetti per ricostruire lo spazio sociale l’ultima considerazione riguarda il legame tra la condizione psicologica del Paese e gli scenari di guerra calda e fredda che appaiono all’orizzonte. Il più clamoroso degli autogol delle società liberaldemocratiche sarebbe quello di contrapporre solidarietà atlantica e solidarietà sociale e per evitare questo secondo cul de sac la strada è quella di allargare la cittadinanza, di evitare che le inquietudini dei penultimi aiutino l’azione di quanti consapevolmente vogliono portare il nostro Paese fuori dal campo occidentale. Le società aperte non sono territori del solo merito ma anche del bisogno. Si dice che la polarizzazione verso le ali estreme è tipica delle post-democrazie del nostro tempo e che la sua forza corrosiva sia tanto maggiore quanto più sono deboli gli “aggregatori centripeti”, le forze della responsabilità. Ma non è affatto detto che l’allargamento del perimetro dei consensi di cui ha bisogno la democrazia italiana debba passare solo dalla ricostruzione del mitico Centro o dalla revisione della legge elettorale, può accompagnarsi utilmente a un rinnovato ciclo di protagonismo sociale.