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di Stefano Lepri

La Stampa, 13 luglio 2023

Non era per colpa del Reddito di cittadinanza che i ristoranti non riuscivano a trovare camerieri? Ora il Reddito di cittadinanza non c’è più ma parecchie imprese continuano a lamentarsi della carenza di personale. Dimenticando di colpo ciò che si proclamava ieri, ora si ripiega sul confortevole luogo comune di sempre, che i giovani hanno poca voglia di lavorare.

Intendiamoci: il problema esiste. In molti Paesi avanzati i posti di lavoro vacanti sono numerosi: per fenomeni difficili ancora da inquadrare che hanno certo a che fare con la passata pandemia, ma non solo con essa. In Italia, secondo i dati Istat, dal secondo trimestre del 2021 sono bruscamente aumentati a livelli non visti da oltre un decennio e solo adesso calano un po’. Però in Italia un aspetto è particolarmente evidente: i salari offerti vengono percepiti come non attraenti, specie in questo momento in cui i prezzi corrono. Meglio guadagnare poco che non guadagnare nulla, sentenzierà qualcuno. Normalmente sul mercato del lavoro dopo un po’ di tempo domanda e offerta si aggiustano incontrandosi a metà strada. Al momento, non sembra facile.

Ha raccontato a chi scrive un piccolo imprenditore romano: “Ho bisogno di un giovane che mi aiuti. Gli offro un impiego a termine da trasformare in posto fisso appena si sarà impratichito e dimostrato capace. La paga mi pare buona, a giudicare da quello che vedo in giro. Ma non va. Uno, per esempio, mi ha detto che preferisce fare come suo fratello, che campa vendendo video su Tik Tok”.

Il caso, seppur leggermente bizzarro, aiuta a rendersi conto delle due facce del problema salariale in Italia. Da un lato, le imprese sostengono che hanno scarse risorse per retribuire meglio. Purtroppo, i dati generali confermano: se il Prodotto lordo (pro capite) dell’economia italiana resta oggi ancora inferiore a quello che era nel 2007, perché mai i salari dovrebbero essere più alti di allora? Dall’altro lato, l’insoddisfazione crescente dei giovani si nutre del vivere in una economia globale dinamica, cittadini di un Paese che, se stenta a produrre reddito, è ricco in patrimonio accumulato e può sfruttarlo. Tanto per dirne una, un giovane che non giudica attraenti i posti di lavoro in offerta può dedicarsi ad affittare appartamenti ai turisti.

Un’Italia in difficoltà con la globalizzazione è riuscita a restare competitiva (esporta più di quanto importi) comprimendo il costo del lavoro. Questa “svalutazione interna”, come gli economisti la chiamano, che i Paesi sotto programma del Mes (Grecia, Portogallo, Irlanda) dovettero attuare di botto dopo la crisi del 2010-2011, noi l’abbiamo tenacemente attuata da soli, fino a tutt’oggi. Non si può proseguire così. La difficoltà di oggi ad assumere dipendenti, pur se potrebbero attenuarsi nei prossimi mesi, provano che ormai la stagnazione dei salari non è più un rimedio valido. Benché i sindacati italiani siano debolissimi (lo sanno) in qualche modo un riaggiustamento delle retribuzioni si impone (come sanno gli imprenditori più accorti).

Altrimenti, si approfondirà la spaccatura tra i giovani che vanno all’estero (in cerca di migliori paghe e, soprattutto, di più attraenti carriere) e i giovani che restano, frustrati dalle basse paghe o da impieghi di risulta che non richiedono grandi applicazioni di capacità intellettive, dunque pronti a consigliare a fratelli e sorelle minori che studiare non serve a molto. Non sono problemi facili da risolvere, per nessuno. Ma almeno si smetta di inventarsi capri espiatori.