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di Alessandro Longo

L’Espresso, 22 ottobre 2023

La sorveglianza dei regimi da una parte contro i tentativi di aggirare la censura dall’altra: è nel digitale che si combatte lo scontro per la libertà. E questo riapre il dibattito sull’enorme potere detenuto dalle piattaforme e sulla loro regolamentazione.

Samira ha 30 anni e all’alba è stata trascinata da casa in un carcere iraniano. Samira il giorno prima era in un ospedale pubblico a trovare la madre. Nella stanza non c’era nessun altro; Samira non pensava di essere osservata mentre, stanca e afflitta, scostava un po’ il proprio Hijab, il velo, lasciando affiorare i capelli lucidi. Non sapeva però che, qualche giorno prima, il regime che ha sostenuto l’attacco di Hamas in Israele aveva installato in quell’ospedale nuove ed efficientissime telecamere cinesi, dotate di intelligenza artificiale, per individuare comportamenti illegali e anche riconoscere, in automatico, i volti dei trasgressori.

Samira per ora è un personaggio di fantasia, ma non lo sarà ancora per molto. Così temono gli attivisti per i diritti civili in Iran. Il governo sta per approvare una legge che tra l’altro istituisce l’installazione di telecamere con riconoscimento facciale in tutti i luoghi pubblici.

“Non ci sono ancora prove che le stiano già usando, ma è certo che lo vogliono fare. Per ora utilizzano manualmente le normali telecamere del traffico e arrestano sempre più donne”, racconta a L’Espresso Shaghayegh Norouzi, attrice e attivista femminista iraniana. Vive a Barcellona, quattro anni fa ha dovuto lasciare il Paese: “Dopo che ho lanciato un movimento contro gli abusi sessuali nell’industria cinematografica non mi facevano più lavorare”, dice. Collabora con la non profit United for Iran per promuovere, anche con la tecnologia, il movimento per i diritti civili nel Paese. “Il governo usa la tecnologia per censurare e sorvegliare”, spiega. “Obbligano le persone a usare app di Stato per tutti i servizi internet e così possono tracciare tutto quello che viene fatto; mentre censurano i contenuti accessibili su Internet dall’Iran. Hanno imparato la lezione dalla Cina, da cui anche comprano tecnologia apposita”. “Ci tracciano con la complicità degli operatori telefonici, che dicono alla polizia chi si è connesso alla rete nelle zone dove c’è stata una protesta. Gli arresti conseguenti sono stati migliaia”, spiega.

Gli attivisti diventano però, da parte loro, sempre più bravi a usare la tecnologia. Tutti usano le Vpn (“reti private virtuali”) per accedere da computer o smartphone ai normali contenuti o servizi internet - come i social network - proibiti in Iran. Sono software o app che consentono di connettersi in modo sicuro e protetto, bypassando restrizioni di rete in vigore nel proprio Paese. “Non potremmo fare nulla senza Vpn. Le usiamo per accedere ai social, dove organizziamo le proteste e gli incontri”, spiega Norouzi. Gli attivisti in Iran ricorrono anche a chat sicure come Signal, gestita da una fondazione (non profit). Signal nel 2024 intende rendere più anonima la sua app, proprio per tutelare meglio gli attivisti. Permetterà di usarla senza associarvi un numero di cellulare, che il regime può controllare (in Iran come in altri Paesi dittatoriali). Ma l’attuale sviluppo tecnologico più aiuta o più ostacola la lotta per i diritti civili, dal momento che a usarlo sono sia attivisti sia le dittature? Norouzi vede un bilancio positivo: “La tecnologia tutto sommato è più un bene che un male, per noi. Solo grazie alla tecnologia possiamo organizzare le azioni anche stando fuori dall’Iran, come sto facendo io”. Ma la risposta dipende dal Paese dove ci si batte.

“L’evoluzione tecnologica per noi, che lottiamo per i diritti in Cina, è soprattutto un ostacolo”, dice Laura Harth, rappresentante all’Onu del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito. “Rende tutto più difficile in un Paese dove il governo è molto maturo a livello tecnologico; più che in Iran o Russia”, spiega. Il firewall cinese che censura i contenuti sgraditi è quasi impenetrabile. Un esercito di profili falsi (“bot”), alimentati anche dall’intelligenza artificiale, manipola di continuo l’opinione pubblica con propaganda e fake news sui social (alla stregua dei media di Stato). “Le connessioni in Cina sono molto ben tracciate dal governo, che usa anche telecamere con intelligenza artificiale. Risultato, per gli attivisti cinesi è sempre più difficile muoversi, agire, in Rete o di persona, senza essere scoperti e arrestati”, spiega Harth. È possibile usare le Vpn anche in Cina, ma il rischio è molto alto per i residenti. Chi le usa dall’Occidente per accedere a informazioni cinesi viene invece bloccato sempre più spesso, appunto per via dell’efficiente sistema di controllo istituito dal partito comunista cinese. “Non riusciamo più ad accedere ai database della Corte Suprema cinese per studiare lo stato di processi e condanne”, aggiunge Harth.

Secondo molti attivisti, come Harth, la sfida del secolo per i diritti civili in questi Paesi si gioca sul ruolo delle grandi aziende private. I capi di Meta (Facebook, Instagram), Google, Apple e X (ex Twitter) hanno il potere di decidere se opporsi alle richieste dei regimi o assecondarle. “In Iran non hanno grandi interessi economici; qui Google arriva a offrire agli attivisti buoni sistemi di Vpn. In Cina invece si piegano alle richieste dei regimi”, dice Harth. “Caso eclatante X. Il nuovo padrone, Elon Musk, ha grossi interessi in Cina con la sua azienda Tesla. Non è un caso che Twitter sia diventato molto più ricco di bot e disinformazione cinesi”, dice Harth. Lo confermano numerosi studi e, a settembre, un sollecito dalla Commissione Europea a Musk. Come riassume Antonella Napolitano, ricercatrice specializzata in digitale e diritti umani: “Il dibattito sull’enorme potere detenuto dalle piattaforme in questi contesti, sulle decisioni che prendono e sulla loro regolamentazione è sempre più attuale e urgente”.