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di Valentina Alberta*

Il Riformista, 29 giugno 2024

La riforma organica della giustizia riparativa, non foss’altro per il fatto che appare in questo momento chiaramente boicottata nella sua piena attuazione da una politica che osteggia meccanismi di favore per le persone accusate di o condannate per un reato, deve essere osservata con uno sguardo laico. Non aiutano infatti a cogliere i punti qualificanti della disciplina approcci ideologici di esasperato favore senza attenzione per gli aspetti problematici, né atteggiamenti aprioristicamente impermeabili rispetto a considerazioni pragmatiche che suggeriscono di lasciare uno spazio di utilità alla disciplina, anche nel processo di cognizione.

Ma andiamo al sodo. Sono almeno quattro le ragioni per le quali i dubbi - non certo banali e che devono essere tenuti sempre presenti nell’approccio alla restorative justice - non possono sovrastare la giusta valorizzazione di una disciplina che, se non è la panacea di tutti i mali, è però uno strumento potente adatto ad alcune situazioni processuali. Il primo aspetto, che va nel senso opposto alla paventata monetizzazione della giustizia penale, è quello della possibilità per chiunque di ottenere la remissione di querela oppure l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. senza condizionarli al pieno risarcimento del danno.

Nulla di più democratico, se ci si pensa. Certo, ovviamente il percorso di dialogo con la persona offesa non è affatto semplice, ma non necessariamente per avere successo deve essere legato ad un aspetto patrimoniale che talvolta nelle relazioni è secondario. Peraltro, a questo proposito, va detto che molte delle perplessità dei detrattori della giustizia riparativa si pongono in termini facilmente superabili solo che ci si confronti con quello che accade nel caso di trattative sul risarcimento del danno: l’invito (altro che nudge…) del giudice a “chiuderla”, la teorica necessità di riservatezza sulle trattative che non impedisce sempre, nel caso di mancato accordo, che le parti ne riportino i contenuti, il fatto che con il risarcimento si rischi implicitamente di ammettere il fatto...

Ma le relazioni personali sembrano spaventare i giuristi molto più del vil denaro. Il secondo dato positivo è legato al ruolo della vittima. Se sappiamo tutti come la persona offesa possa nel procedimento penale mirare soltanto ad un ristoro patrimoniale come parte civile, conosciamo benissimo quali effetti distorsivi siano provocati dal fatto che la vittima del reato abbia in realtà necessità di ascolto, di confronto con il presunto autore, di sfogo, che il processo penale giustamente esclude, per le sue preminenti esigenze di accertamento.

O dovrebbe escludere, finendo invece spesso per tollerare ingerenze emotive e mediatiche proprio legate alle aspettative frustrate. La persona offesa/vittima trova invece nella giustizia riparativa un luogo riservato di pieno ascolto e di tutela di uno scambio dialogico anche con contenuti fortemente emotivi. Nel caso di successo, come è evidente nelle parole delle vittime anche note che abbiano fatto percorsi di questo tipo, questo spazio serve anche a far trovare pace alle vittime. Ma soprattutto potrà fare “trovare pace” al processo penale martoriato da ingerenze indebite esterne (mediatiche soprattutto) ed interne (che coinvolgono gli stessi soggetti processuali) rispetto ad una concezione distorta del ruolo della vittima.

Ancora, e specialmente in questo momento storico, non possiamo non fare una riflessione sull’efficacia della sanzione. Una pena, in qualsiasi forma, difficilmente genera un effetto di adesione al precetto normativo paragonabile ad un percorso profondo come quello riparativo. Anche questo deve essere tema di riflessione, insieme infine all’ambizione alla pacificazione e alla fiducia reciproca che il sistema giustizia non può non avere.

I dubbi restano. La tutela della presunzione di non colpevolezza, attraverso il presidio delle paratie che devono separare i sistemi penale e riparativo, e il cardine sistematico secondo cui il processo è reo-centrico devono essere il parametro dell’attività difensiva nel campo della giustizia riparativa, non invece il dubbio esiziale che trascina con sé tutto il resto.

Con una corretta distinzione tra il ruolo del giudice (che non raccoglie il consenso né verifica l’ammissione del nucleo essenziale del fatto, compiti questi del mediatore esperto) e quello del mediatore (che non accerta responsabilità e non restituisce prove, compiti riservati al processo) le questioni pratiche che si pongono possono essere sicuramente risolte. Il rischio è altrimenti quello di rafforzare il punto di vista di chi osteggia la giustizia riparativa, svilendone il significato a scappatoia dalla mannaia della responsabilità penale.

*Avvocato penalista