di Francesco Occhetta
Vita Pastorale, 30 luglio 2018
"Vogliamo giustizia, è stata fatta giustizia, promettiamo giustizia...". Quante volte nelle cronache mediatiche ricorrono espressioni di questo genere per delitti, litio per la percezione di aver subìto un'ingiustizia? Ci dividiamo tra giustizialisti (che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta) e permissivisti (che minimizzano l'accaduto), fino a quando la giustizia non ci tocca nella carne. L'universo giustizia ci impone di riflettere. Per farlo basta partire da tre premesse: 1) le sentenze non riducono il conflitto tra le parti; 2) torna a compiere un reato il 69 per cento dei detenuti; 3) le vittime sono le grandi dimenticate dall'Ordinamento.
Per il mondo della giustizia penale rimane una domanda antica: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Nei 195 istituti penitenziari italiani, a metà del 2018 erano presenti circa 58.000 detenuti (circa 9.700 sono in attesa di giudizio), a fronte di una capienza regolamentare di 50.069. Un detenuto costa circa 200 euro al giorno, ma lo Stato spende solo 95 centesimi per la rieducazione. Insomma, la crisi della giustizia penale dipende dal modello di riabilitazione. Circa 29.000 detenuti scontano la pena non in carcere, 12.400 sono in affidamento ai servizi sociali. L'alternativa al carcere funziona. Non certo per i detenuti di grandi reati, che sono circa 10.000, ma per i rimanenti 48.000, molti dei quali espiano pene di lieve entità. Ma c'è di più: al modello vigente di "giustizia retributiva", basato sui principi della certezza della pena e della proporzionalità del danno, si sta affiancando quello della giustizia riparativa, un "prodotto culturale" che pone al centro dell'Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo.
Centrale per questo modello è l'incontro della vittima con il reo, che è 1chiamato a ripristinare l'oggetto o la relazione che ha rotto. Servono mediatori penali e civili e una società che non consideri le carceri come delle discariche sociali, per utilizzare l'immagine di Bauman. Si tratta di un modello adulto che non fa sconti sulla pena, ma umanizza la sua espiazione, chiede di riconoscere la verità, condanna il male, restituendo dignità a chi ha sbagliato e un senso al dolore delle vittime. In molte parti del mondo il modello funziona, in Italia è applicato nel diritto penale minorile e vissuto in tante singole esperienze, come quella di Agnese Moro, Lina Evangelisti, Bruno Vallefuoco e altre vittime che hanno avuto la forza di cambiare la vita ai loro rei.
Occorre non politicizzare il tema, le parole infuocate che creano paura premiano elettoralmente, ma sono come gocce che spaccano la roccia su cui si fonda la società. Quando gli Usa, negli anni Novanta, buttarono via le chiavi dei loro istituti di pena e presero a costruirne nuovi altri, i detenuti aumentarono di 5 volte e arrivarono a due milioni.
Parlando di populismo penale, il Papa chiede alla cultura della giustizia di "non cercare capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, [altrimenti c'è] la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici". Questo modo di fare, ha aggiunto, "permise l'espansione delle idee razziste".
Siamo davanti a una scelta: rendere fertile il terreno culturale. Quando si macchia di sangue il terreno su cui viviamo è responsabilità di tutti bonificarlo, altrimenti non cresce frutto per nessuno. La scuola, le famiglie, le associazioni, le comunità ecclesiali, insomma la società civile, devono credere e aprire pratiche condivise di giustizia riparativa. Dal seme buono riconosceremo i frutti.