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di Claudio Bottan*

vocididentro.it, 3 marzo 2024

Chi scrive ha vissuto una lunga detenzione, esperienza devastante che consente però di affrontare il tema del carcere con cognizione di causa: il punto di vista dell’inviato al fronte che racconta ciò che vive da un “osservatorio privilegiato”, alla stregua dell’inviato di guerra. “Com’è il carcere?” mi chiedono spesso gli studenti durante gli incontri a cui partecipo da anni. Venti ore al giorno accatastati in spazi stretti e in condizioni igieniche da terzo mondo, costretti a convivenze forzate che spesso generano violenza. Soprattutto, in cella non si fa niente. Completamente niente, con un tempo che scorre inutilmente, senza significato. Come dovrebbe sentirsi un essere umano che si trova a vivere questa condizione? Basta un soggiorno di pochi mesi per abbrutirsi per sempre accumulando veleno, quello che ben descrive Beppe Battaglia nel libro Processo al carcere di Aristide Donadio. L’effetto è che, così trattato, il detenuto si sentirà vittima del sistema; la revisione critica del comportamento che ne ha causato la colpa passa in secondo piano vanificando così la funzione della pena.

La persona ristretta in condizioni disumane e degradanti pensa ossessivamente al male che patisce, all’ingiustizia di cui è vittima, e si ritiene in credito -non in debito- con la società. Poi, quando viene sbattuto in libertà, cosa dovrebbe fare? Ha buttato via il tempo, non ha imparato niente, e si sente inutile. Un disadattato che ha scontato la pena e cammina accanto a noi ma ha un destino segnato: tornare a delinquere. “E quindi, cosa ti ha insegnato il carcere?”. È la domanda più difficile, perché dovrei rispondere che la galera mi ha insegnato solo a sopravvivere alla galera stessa. Ma potrebbe sembrare una lagna da abolizionista. Quel tempo inutile avrei preferito dedicarlo alla riparazione del male che il mio comportamento deviante ha causato alla società, magari prendendomi cura di persone fragili. Invece, in galera ho imparato a preparare un buon caffè con la cremina, so anche fare la colla utilizzando la pasta scotta del carrello del vitto, costruire un coltello partendo dalla bomboletta del gas, giocare a scopa e, all’occorrenza, menare le mani. Il corso di ping-pong ha rappresentato una svolta, tanto quanto quello di informatica con il pc disegnato su un pezzo di cartone: attività utili probabilmente solo a chi sul carcere specula. In compenso ho apprezzato molto il corso di agraria che mi permette di coltivare un orto che rappresenta l’invidia dei vicini di casa. Ma non credo che si tratti di competenze che possano arricchire un curriculum.

Quello che sono oggi è frutto di una personale scelta di cambiamento, un doloroso travaglio interiore che -per caso- ha incrociato una serie di coincidenze favorevoli, non certo il risultato della miracolosa redenzione che ci si aspetta dal trattamento rieducativo del carcere. A proposito della funzione rieducativa del carcere. A fingere che tutto vada bene l’ho imparato un sabato mattina che difficilmente scorderò. Mi ero tirato a lucido per dissimulare la sofferenza e avevo preparato la solita bottiglietta con il caffè che i galeotti portano ai colloqui, i dolcetti acquistati (a caro prezzo) al sopravvitto e, in mente, le mille cose da dire. Non avevo però messo in preventivo che quel giorno avrei dovuto fare i conti con una perquisizione fastidiosa.

“Abbassa pantaloni e mutante”, - mi ha detto quell’agente che avevo percepito essere particolarmente agitato -. Durante la flessione, faccia al muro, mi è piovuta una scarica di calci al costato, con una violenza immotivata e gratuita che mi ha tolto il respiro. Con la coda dell’occhio vedevo lo scarpone roteare, avvertivo i calci rabbiosi e senza senso, ma non provavo alcun dolore. Volevo solo fare presto per non perdere preziosi minuti di quell’incontro che attendevo da mesi.

Ogni relazione affettiva non convenzionale, stando all’arcaico linguaggio burocratese della galera, è inquadrata nella casella “colloquio con terza persona”, quasi a stabilire una sorta di distanza tra ciò che è ritenuto normale e quello che invece è “una concessione” riferita al mantenimento di una relazione affettiva che necessita di autorizzazioni particolari in quanto esula dagli schemi. Gli occhi rossi erano dovuti all’allergia al polline, le lacrime e la rabbia che ingoiavo a fatica durante il colloquio potevano tranquillamente essere emozioni che faticavo a controllare, e non costole fratturate di cui preoccuparsi. Tutto bene, ci vediamo presto.

Mi porto dentro tanta rabbia per aver sprecato anni di vita oziando, con un costo pari a 150 euro al giorno che escono dalle tasche dei cittadini, gli stessi che vorrebbero buttare la chiave il più lontano possibile inconsapevoli dell’effetto boomerang. Tutte le pene detentive hanno un termine e, quindi, alla fine è il tasso di recidiva dei reati l’elemento centrale su cui riflettere utilizzando sistemi efficaci e ragionando. non su opinioni, ma solo ed esclusivamente su dati scientifici ed oggettivi, quali i dati statistici forniti dal ministero della Giustizia. Bisogna andarseli a cercare e non sempre è facile. Chi sconta una pena in regime alternativo alla detenzione ha un tasso di recidiva attorno al 19%. Chi sconta tutta la pena in carcere, invece, ha un tasso di recidiva attorno al 68,5%. Non è una differenza da poco. Se buttiamo via la chiave, le probabilità che chi ha commesso un reato lo rifaccia sono tre volte superiori.

Le statistiche ci dicono che le revoche delle misure alternative alla detenzione, invece, sono veramente poche: non arrivano al 5%; ciò significa che più del 95% delle persone che scontano la loro condanna fuori dal carcere rispettano le prescrizioni. Chi vorrebbe mettere tutti in galera e lanciare le chiavi potrebbe eccepire che una percentuale di revoca così bassa può esser dovuta all’esiguità dei controlli delle forze dell’ordine più che al rispetto delle prescrizioni della persona in regime alternativo. Non è così. La misura alternativa è un impegno. I controlli ci sono, eccome. Il campanello suona anche più volte durante la stessa notte, e spesso si tratta di forze di Polizia che si alternano senza alcun coordinamento logico.

Ma il cittadino comune che ne sa? Questi dati non li conosce perché non vengono divulgati, e la ragione non è dato saperla.

*Ex detenuto, vicedirettore della rivista “Voci di dentro”