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di Sara Vanni

sardegnareporter.it, 11 dicembre 2022

Intervista a Daniela De Robert, membro dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà: “La dimensione di un tempo che scorre inutilmente. Un tempo che è semplicemente sottratto alla vita e che non riesce a diventare un’opportunità di crescita di cambiamento. Eppure, la Costituzione ci chiede un reinserimento costruttivo”.

A cosa è dovuto questo vuoto?

“Dalla mancanza di attività significative durante la reclusione. Inoltre, non dimentichiamoci che durante la pandemia e il lockdown vennero interrotte tutte le attività e gli incontri con i familiari. Un’altra criticità è la sensazione di abbandono e di rimanere segnato per sempre che percepisce chi vive dietro le sbarre. Il carcere, difatti, è come se le persone non appartenessero più alla comunità esterna. C’è la sensazione di essere dei ‘vuoti a perdere’”.

Da cosa nasce lo studio dei suicidi negli Istituti penitenziari?

“L’altissimo numero dei suicidi non può non preoccupare e interrogare una Autorità di garanzia che ha il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà. Solo che, l’insieme di cause e di ragioni che spinge al gesto non può essere ricondotta automaticamente e in via esclusiva alla condizione di detenzione in carcere.”

La ricerca, infatti, approfondisce le dinamiche dei suicidi in carcere nel 2022 e, nella seconda parte, fa un’analisi diacronica degli ultimi 10 anni...

L’abbiamo voluta pubblicare -anche se intermedia- perché ci sembrava importante iniziare ad offrire dei dati precisi sui quali ragionare.

Cosa si evince analizzando il rapporto?

“Il rapporto di quest’anno evidenzia innanzitutto un record negativo: negli ultimi 10 anni non ci sono mai stati così tanti suicidi. Andiamo nello specifico: 49 persone si sono uccise nei primi mesi di detenzione; 5 di questi nei primi giorni; 9 addirittura nelle prime 24 ore. Alcuni non avevano fatto in tempo neppure ad essere immatricolati perché si sono uccise subito. Quindi non è il sovraffollamento o il carcere degradato a spingere le persone a gesti estremi, ma la disperazione: quella sensazione terribile di chi entra in carcere e pensa: ‘da qui non riemergerò mai più’”.

In quale altro momento si registra il picco di suicidi?

“L’altro picco di suicidi si registra quando il detenuto sta per uscire a fine pena. Sembrerebbe un controsenso, ma l’uscita può trasformarsi in disperazione, nella paura di non farcela, di solitudine, di non trovare un’accoglienza all’uscita, di non trovare un lavoro per mantenersi, una casa, delle amicizie significative. Senza dimenticare lo stigma”.

Chi sono i soggetti particolarmente vulnerabili?

“Il rapporto ha fatto emergere che 65 persone (pari all’82,28%) sulle 79 suicidatesi erano coinvolte in altri eventi critici, mentre altre 26 (ossia il 33%) avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio (in 7 casi addirittura più di uno). Inoltre, 23 persone (ossia per il 29% dei casi) erano state sottoposte alla misura della ‘grande sorveglianza’ e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio. Va osservato poi che 18 persone tra quelle che si sono tolte la vita risultavano senza fissa dimora e tutte di nazionalità straniera. A proposito di quest’ultimo dato, si evidenzia che il numero delle persone senza fissa dimora che si sono tolte la vita risulta in netto aumento rispetto agli anni precedenti. Questo ci dice che vivere per strada è un fattore di fragilità che si somma alla vergogna di essere finiti in carcere. Inoltre, anche il carcere stesso rende più fragili le persone, specie se sono recluse da tanti anni. Una volta uscite, fanno molta fatica a riprendere il ritmo e possono sentirsi completamente tagliate fuori”.