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di Paolo Biondani

L’Espresso, 3 luglio 2022

“Siamo immersi sino al collo in una giustizia classista. C’è ormai un processo a due velocità che fluisce rapido e senza intoppi esclusivamente nei confronti degli ultimi della terra”, così Nello Rossi, che dopo una lunga carriera giudiziaria oggi è direttore editoriale di Questione giustizia.

Scontri furibondi e denunce penali tra magistrati. Giudici indagati o arrestati per reati gravi. Scandali e misteri perfino nella lotta alla mafia. Processi lentissimi, norme incerte, sentenze contrastanti. E cittadini sempre più sfiduciati.

La giustizia italiana attraversa una crisi profonda, strutturale. Per capirne le cause e i possibili rimedi L’Espresso ha intervistato Nello Rossi, che dopo una lunga carriera giudiziaria oggi è il direttore editoriale di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica, storico laboratorio di pensiero e riforme giuridiche progressiste.

La magistratura, che in passato riuscì a resistere ai peggiori attacchi esterni, oggi attraversa una crisi interna senza precedenti, amplificata da vicende emblematiche come il caso Palamara. Come se ne esce? Servono leggi diverse? Controlli ispettivi più severi?

“Il caso Palamara? Innanzitutto chiamiamolo con il suo vero nome: caso Palamara - Ferri, dai nomi dei due principali protagonisti degli incontri dell’hotel Champagne. A partire da quello scandalo è nata una crisi che non passa e che rischia di innescare una spirale distruttiva di una struttura fondamentale dello Stato democratico di diritto. Come se ne esce? In primo luogo distinguendo tra i fatti, emersi dall’indagine di Perugia, e la narrazione, offerta da una parte dei medita sulla scia del best-seller di Sallusti e Palamara”.

Se è vero che Palamara è stato radiato e inquisito per corruzione, il suo caso non si può liquidare come isolato o marginale: centinaia di giudici lo votavano e si riconoscevano in lui…

“L’indagine ha svelato una storia brutta e grave di amministrazione distorta delle nomine, scoperchiando un verminaio di ambizioni personali, manovre di corridoio, sotterranee compromissioni con la politica. Nel ruolo di protagonisti sono emersi i rappresentanti della magistratura più clientelare e più corporativa. Grazie però alle abili cure di Sallusti, il vero dominus del racconto a due voci, la realtà dei maneggi sulle nomine si è trasformata in una narrazione completamente diversa. Una storia di condizionamento della giustizia italiana ad opera di un cosiddetto “sistema”, egemonizzato da una fantomatica sinistra giudiziaria. Il tutto senza addurre uno straccio di prova o di casi concreti. Palamara da manovratore è stato presentato come succube e vittima, mentre la parte più compromessa della magistratura si è defilata silenziosamente. Se non si ristabilisce un minimo di verità su tutto questo, la crisi è destinata a durare all’infinito, perché non si capirà in quale direzione ricercare rimedi realmente efficaci”.

Autorevoli magistrati, avvocati e giuristi parlano da tempo di degenerazione delle correnti. Cosa pensa della recente riforma del Csm, che ha l’obiettivo proclamato di ridurne il peso?

“Il sistema elettorale approvato dal Parlamento ha una netta curvatura maggioritaria che non convince. Quando il Csm decide sulle nomine o su altre questioni istituzionali, l’esistenza di una maggioranza predeterminata a priori è il peggio che possa capitare. Comunque, qualsiasi sistema elettorale non produrrà i frutti sperati senza una rigenerazione della democrazia interna alla magistratura. Alla questione morale si può rispondere con i procedimenti disciplinari e penali. Ma per restituire vitalità e correttezza al governo autonomo della magistratura occorre affrontare di petto la questione democratica, contrastando le oligarchie e promuovendo più discussione collettiva, più riflessione comune, più ricerca di un’etica condivisa. E ciò rimanendo fedeli al modello costituzionale, che parla di elezioni senza imboccare il vicolo cieco del sorteggio in tutte le sue fantasiose versioni. Un magistrato isolato non sarebbe più colto, né più indipendente, né più consapevole del suo ruolo e della necessaria imparzialità”.

Molte delle ultime riforme penali hanno indebolito la pubblica accusa in nome di un garantismo che però premia soprattutto i colletti bianchi, mentre le carceri restano piene di detenuti per droga e invivibili. Emblematico il tema dell’impunità per prescrizione, che si doveva abolire e invece è raddoppiata con la cosiddetta improcedibilità. Stiamo tornando a una giustizia classista, debole solo con i forti?

“Ma siamo già immersi sino al collo in una giustizia classista! C’è ormai un processo a due velocità che fluisce rapido e senza intoppi esclusivamente nei confronti degli ultimi della terra. Purtroppo è solo al di fuori di questa area che si comincia a discutere di garanzie e di ragionevole durata del processo. Diciamolo con chiarezza: un processo penale come il nostro, articolato in tre gradi di giudizio e fitto di subprocedimenti, non può essere breve. Occorreva moltiplicare le alternative al dibattimento, snellire le impugnazioni. La riforma Cartabia lo ha fatto solo in parte. E si è creduto di poter rimediare a questi vuoti mandando al macero i giudizi di impugnazione che superano una certa durata. Il macero: è questo il vero significato della formula esoterica “improcedibilità”. Era nettamente preferibile il sistema introdotto dalla legge Orlando”.

La giustizia civile è un disastro quasi ovunque, con tempi infiniti, procedure cavillose e norme incerte, eppure se ne parla pochissimo…

“È del tutto ovvio che non si vive bene, e non si investe, in un Paese in cui recuperare un credito, far rispettare un contratto, risolvere una controversia di lavoro, avere una causa con il fisco sono operazioni troppo lunghe e incerte. Perciò il Pnrr è mirato sulla giurisdizione civile e tributaria. Bisogna rinunciare ai troppi orpelli e semplificare. Molto si spera dal potenziamento dell’ufficio del processo, uno staff di collaboratori qualificati dei giudici, che dovrebbe aumentare il numero e accelerare i tempi delle decisioni senza uno scadimento di qualità. È una scommessa difficile ma si può vincere”.

Alla strage di via D’Ameno è seguita la peggior indagine antimafia degli ultimi trent’anni: un’offesa alla memoria di Paolo Borsellino, un tradimento dei suoi insegnamenti. Come si spiega che un falso pentito sia diventato l’architrave di processi e condanne confermate? Perché nessun magistrato ha pagato per quello scandalo?

“Quella vicenda è al tempo stesso un terribile errore giudiziario e un fittissimo ginepraio. E non sarò certo io, che non me ne sono occupato, a poterlo districare. Posso dire che, quando non si rispettano le regole, arrivano frutti avvelenati. E le cronache parlano cli numerose e gravi anomalie nelle prime indagini, tra cui colloqui riservati con il pentito e contatti con i Servizi. Purtroppo è morto il procuratore Tinebra, che in quel processo ha avuto un ruolo primario. Certamente vi sono state gravissime carenze di professionalità nella valutazione della credibilità del pentito e nella ricerca di riscontri. E così si è aperta la strada ai depistaggi. Sa perché l’errore giudiziario toglie il fiato anche ai magistrati che non l’hanno commesso? Perché è sempre un errore collettivo, una falla del sistema, una enorme ferita, prodotta da tante azioni e distrazioni inammissibili, sulla pelle di un innocente”.