di Francesco Petrelli*
Il Dubbio, 6 agosto 2024
Il problema non è solo il rapporto tra magistratura e stampa: in gioco c’è anche la responsabilità collettiva nel rapporto con il processo penale. Le dichiarazioni del padre di Giulia Cecchettin, in difesa del padre di Filippo Turetta, ci inducono a tornare ancora una volta sul tema delle intercettazioni dei colloqui in carcere, allargando lo sguardo agli scenari all’interno dei quali la polemica si è sviluppata. Quello dell’uso improprio delle intercettazioni al di fuori della finalità processuale è infatti un problema che riguarda certamente la magistratura e l’informazione, ma che investe anche la responsabilità dell’intera collettività ed il suo modo di porsi di fronte al processo penale e ai suoi strumenti.
E più in genere di fronte al delitto. Riguarda certamente l’Informazione e la magistratura perché la riservatezza dei colloqui per la nostra Carta costituzionale è inviolabile e solo la ricerca della prova - e solo a determinate condizioni può giustificarla all’interno di un processo penale. Ammesso che l’intercettazione avesse nella mente di chi indagava quello scopo, è chiaro che non ha dato alcun risultato e che, pertanto, quelle conversazioni non dovevano essere neppure trascritte. Non vi era nulla che assomigliasse ad una “prova” concernente il reato nelle parole dei due genitori del giovane detenuto.
Dovrebbe essere oramai chiaro a tutti che quei dialoghi non dovevano essere neppure oggetto di intercettazione e tanto meno di trascrizione e di pubblicazione. Due genitori che in un momento drammatico della loro esistenza cercano di sostenere il proprio figlio, che ha già confessato di essere autore di un gravissimo fatto di omicidio, non possono essere a loro volta processati e sottoposti ad una indecente gogna mediatica. Si tratta di contenuti insindacabili, frutto dell’intrusione in una sfera così fragile e misteriosa che non può essere violata con tanto barbara e tracotante protervia, con il solo fine di dissentirne nel nome di una improbabile etica universale.
So bene che questa obiezione incontra una prevedibile opposizione (ben venga il materiale di risulta dell’indagine: se anche non ci consegna alcuna “prova” è comunque qualcosa di interessante per la “cronaca”), ma occorrerà, per questo, ancora una volta, fare chiarezza su quell’assurdo deragliamento alimentato e sancito da un perverso rapporto fra media e processo penale. Se l’intercettazione è infatti un “mezzo di ricerca della prova”, non può essere intesa come un dispositivo da calare alla ricerca delle opinioni personali dell’indagato, o magari di persone non implicate affatto nel reato, come se si trattasse di una sonda fatta per poter poi discutere della moralità dei colloquianti, della adesione dell’indagato o dei suoi amici e parenti ad uno stile di vita o al pensiero confacente ai più. Se solo l’acquisizione della “prova” giustifica la lesione della inviolabilità della riservatezza, tutto ciò che è stato altrimenti acquisito non può essere mai trascritto e tantomeno pubblicato.
L’argomento che viene utilizzato in questi casi, secondo il quale questa o quella conversazione “trovata in atti” interessa comunque l’opinione pubblica, è un argomento francamente insostenibile, perché l’intercettazione non è l’esca per un talk- show, non è una sonda etica utile per sviluppare dibattiti o fare indagini sociologiche. Credo che questo resti al fondo il punto della questione. Avallare argomenti di quel genere significa sostanzialmente affermare che sia lecito utilizzare ogni mezzo intrusivo che il processo ci consente, perquisizioni, sequestri informatici, intercettazioni, non per acquisire la conoscenza di un reato, ma per cercare informazioni sul modo di vivere e di pensare dei cittadini.
È comprensibile che anche questo sia un sogno per molti di coloro che non hanno una visione liberale della convivenza civile e che coltivano per questo un clamoroso equivoco nel disegnare i rapporti fra trasparenza e democrazia. L’equivoco consiste nell’immaginare un inesistente conflitto fra trasparenza e riservatezza che vada populisticamente inesorabilmente risolto in favore della prima. È infatti sempre consolatorio spiare nel fondo dell’animo degli altri con la sicurezza che il male si annidi nelle opinioni nascoste, negli errori e nelle debolezze altrui.
In quei luoghi non sempre cristallini del mondo dell’altro, dove si è al riparo dalla pericolosa cognizione del dolore e dei limiti esistenziali di ogni essere umano e dunque dei propri. È rassicurante proiettare il male in un altrove che non ci tocca e non ci coinvolge, assolvendo ogni nostro cattivo pensiero e consentendoci di aggredire con la necessaria ferocia le debolezze altrui. Se alla base di questa “catena alimentare” dell’indignazione ci sono magistrati che hanno pensato di fare il loro dovere intercettando e c’è poi qualcuno, fra gli operatori del diritto e dell’informazione, che ha pensato che diffondendo e pubblicando quei colloqui si potesse fare una proficua opera di epurazione morale, c’è attorno questo pubblico plaudente, pronto a giudicare prima di comprendere, a dare risposte prima di porsi le domande. Si tratta di una “catena alimentare” che tende alla distruzione dell’ambiente in cui viviamo.
Non si fa, infatti, un buon servizio al progresso civile e sociale del Paese ed alla soluzione di nessuno di quelli che chiamiamo di solito “problemi culturali”, come quello che riguarda il rapporto di genere, impegnandoci in quella sorta di linciaggi collettivi del capro espiatorio di turno (colpevole o innocente che sia), pieni di indignazione e di esecrazione e vuoti di pensiero e di pietà. Se questo è il mondo “civile” che ci attende, credo che ci si debba interrogare sui rimedi possibili, e credo che occorre farlo in fretta, perché il precipizio non è poi così lontano.
*Presidente dell’Unione delle Camere penali italiane