sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Daniela Mariotti

L’Altrapagina, 17 settembre 2023

Agosto, mese di vacanze, per il carcere è notoriamente un mese d’inferno. Il caldo soffocante in spazi ridotti, anche per il sovraffollamento, la mancanza di servizi per le ferie, legittime, degli educatori e degli agenti, determinano una esplosione del disagio che pure si respira nei volti, nei luoghi e nelle più diverse situazioni per tutto l’anno. I casi di suicidio fino al 20 agosto di quest’anno sono stati 43 e 85 nel 2022. Ne parliamo con il dott. Enrico Sbriglia, residente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste.

Dott. Sbriglia, quando si parla di carceri si prova un imbarazzo storico... come di fronte a un problema enorme, incancrenito e irreversibile È così?

“Lo è, la situazione è, dal mio punto di osservazione storico e tecnico insieme, la peggiore degli ultimi cinquant’anni, da far tremare i polsi a ogni governante in cui residui un minimo di coscienza istituzionale. Credo che si tratti, insieme all’altro continente devastato, quello della giustizia, del peggior lascito nelle mani del nuovo Governo. Si tratta di un panorama davvero sconfortante che, ove tutto precipitasse, sarebbe in grado di sconvolgere ogni agenda dell’esecutivo”.

Si può dire che in carcere finiscano tanti problemi non risolti nell’ambito sociale? Quanti extracomunitari, quanti malati psichiatrici, quanti tossicodipendenti potrebbero stare fuori?

“Non è che si possa dire, ma si deve dire assolutamente. Tutto ciò che di difficile non venga affrontato seriamente dallo Stato e dalla politica pavida, si traduce spesso in mistica penale. Se le politiche migratorie fanno acqua da anni, se quelle di contrasto ai traffici e ai mercati di droga risultano perdenti, perché non solo è aumentato il numero di tossicodipendenti ma anche la forza intimidatrice dei cartelli e delle criminalità organizzate, nonché le loro capacità organizzative, strumentali e tecnologiche, se ogni forma di disobbedienza viene contrastata con risposte penali, se il disagio psicologico e psichiatrico riempie le carceri. È evidente che sono mancate delle coerenti strategie socio-politiche che avrebbero richiesto grandi e forti investimenti nel sociale, in particolare nel mondo della scuola, mentre si privilegiano quelli penitenziari”.

Un esempio è il “dopo carcere”. Per alcuni detenuti, che non hanno più rapporti famigliari e sociali, uscire dal carcere genera vera angoscia. A volte questa è la causa di un suicidio. Che fare?

“Manca, e non da oggi, un serio format organizzativo di presa in carico e di accompagnamento verso le persone liberande. Ma per farlo occorrerebbero risorse e seri investimenti di welfare. Sarebbe necessaria una forte rete di assistenti sociali penitenziari insieme a quelli dei servizi pubblici degli enti locali, insomma una organizzazione efficiente. E un tanto non solo per offrire possibilità concrete di recupero sociale, ma anche per esercitare un controllo reale su persone che, se abbandonate a sé stesse, potrebbero davvero divenire più pericolose anche per gli altri: un controllo che significhi sicurezza, seppure formalmente di aiuto e soccorso sociale, piuttosto che sorprendersi di fronte a ogni efferato crimine frutto dell’abbandono e del disagio sociale, se non di diverse forme di pazzia violenta”.

Perché è così difficile “mettere mano” a questo buco nero delle nostre istituzioni?

“Perché occorrerebbero davvero grandi capacità di governare la cosa pubblica, una competenza amministrativa sistemica e un gioco di squadra tra le diverse istituzioni che dovrebbero ritrovarsi attorno questa esigenza di sicurezza e di soccorso sociale. È questo un campo dove non ci si può muovere con facili slogan oppure mostrandosi pietosi o, al contrario, cerberi. Occorre capacità di programmazione per l’oggi, per il breve e medio e lungo termine. Occorrerebbe una “gabbia” di regia che, almeno con cadenza mensile, faccia il punto della situazione, interloquendo con pochi esperti giuridici, quindi magistrati della prima linea, quella di tribunali intasati, che sanno cosa significhi leggere gli atti di un processo mentre lo si va a formare. Conosco dei GIP o dei GUP che devono fare salti mortali per dare delle risposte equilibrate e tempestive di giustizia. In questa stanza di regia dovrebbero confrontarsi lealmente lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale con il Capo del DAP, riferendo costantemente al Ministro Nordio, al vice ministro Sisto e ai sottosegretari Ostellari, Delmastro e Delle Vedove, affinché possano assumere tutte le pertinenti iniziative politiche e di Governo. Occorrerebbe avere la consulenza di funzionari penitenziari che sappiano spiegare la complessità amministrativa delle carceri, cosa, ad esempio, un funzionario contabile debba fare nella quotidianità. Occorrerebbe che i Direttori penitenziari raccontino dei salti mortali che devono compiere ogni giorno per non mandare a fondo gli istituti penitenziari, così come per i Comandanti che spieghino la difficoltà non quotidiana, ma ora per ora, che devono affrontare per assicurare, con le scarse risorse di cui si dispongono, una reale e dignitosa sorveglianza verso le persone detenute, piuttosto che una pantomima di essa, con tante carceri nei fatti prive di vero controllo”.

Come affrontare il problema salute?

“Sarebbe meglio parlare della privazione della salute, che riguarda sia le persone detenute che quelle “detenenti”. Esistono sulla carta almeno venti modelli di sanità penitenziaria, così come è il numero delle regioni: venti modelli e tutti dovrebbero ricevere uguale risposta sanitaria. Ovviamente i contenuti dei protocolli siglati sono diversi, ma nella pratica i risultati sono analoghi, se è vero che non vi sia territorio che non lamenti grandi criticità (rectius: assenza di cure, di medici, di infermieri, di farmaci, di percorsi trattamentali e prese in carico di persone tossicodipendenti, con doppia diagnosi, tossicodipendenza e psichiatrica, oppure semplicemente folli violenti)”.

Allo stato attuale quali misure immediatamente praticabili si dovrebbero adottare secondo lei?

“Quando comincerà a circolare la parola “amnistia”, che serve non più alle persone detenute ma allo Stato, che deve salvare il salvabile di sé stesso, comincerò a pensare che davvero ci si sia resi conto del reale stato delle cose. Occorre coraggio politico, occorreranno maggioranze qualificate, ma se non troveranno tale coraggio, “rebus sic stantibus”, dubito davvero che riusciranno in un tempo medio breve a invertire tempestivamente la rotta che oggi vede penitenziari, spesso privi di comandanti, con equipaggi stanchi e demoralizzati e con i passeggeri in rivolta. Ho parlato di amnistia, e non di indulto, perché l’indulto è più faticoso e prevede che si arrivi a giudizio, che i processi comunque si facciano, che le matricole delle carceri ed i tribunali continuino ad operare, seppure “a vuoto”. Occorre fare i conti con la realpolitik e con una situazione davvero penosa, che il Governo ha ereditato dai venditori di parole, che oggi bruciano e possono incendiare tutto”.

Le misure alternative al carcere hanno dato risultati molto positivi (quelli diffusi dal Cnel pochi mesi fa), eppure rimangono decisioni applicate in minima parte…

“Ho visto davvero tante persone cambiare in meglio a motivo del corrispondente impegno sul lavoro. Persone detenute che hanno accettato la sfida del cambiamento, che hanno creduto di potercela fare. Così come ho visto tanti altri migliorare soltanto per avere cominciato a studiare teatro, nell’impegnarsi nello studio delle arti, così come nell’avere ripreso studi scolastici interrotti prematuramente, o perfino dedicarsi alla cura dell’anima attraverso le religioni, tutte, perché tutte hanno finalità buone e universali. Circa le misure alternative, più eloquente di ogni parola sono i dati trasmessi dallo stesso ministero della giustizia: al 31 luglio, su una popolazione di circa 57.749 persone detenute, di cui 42.918 erano condannate definitive, soltanto 1209 erano quelle in semilibertà, praticamente una percentuale del 3%. È il fallimento di un istituto giuridico così importante com’è quello della semilibertà, che prevede che il detenuto esca dal carcere per lavorare presso imprese, aziende private o pubbliche, purché accreditate, rientrando poi a fine giornata lavorativa in luoghi controllati saltuariamente, anche tutti i giorni, dalle forze dell’ordine e sotto la vigilanza di assistenti sociali, nonché della stessa polizia penitenziaria. Da parte di tanti non si vuol dare corso a tali misure di deflazione delle carceri: ma di cosa stiamo parlando?”.