sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Viola Ardone

La Stampa, 21 maggio 2022

“Le madri non dormono mai”, di Lorenzo Marone. Editore Einaudi. La detenuta Miriam vive con il piccolo Diego in un Istituto a custodia attenuata. Per loro il mondo ha un perimetro strano che si apre con la scuola e di notte torna prigione

Le madri non dormono mai. Nemmeno quando conviene sognare una vita diversa. Nemmeno quando la notte sembra non finire mai. Nemmeno se il giorno è durato una vita. Le madri si chiamano Miriam, Anna, Dragana, Amina. I figli si chiamano Diego, Melina, Giambo, Aramu… non fa differenza. I figli restano figli anche se le finestre hanno sbarre alle pareti, e le madri non smettono di essere madri anche se il carcere si chiama “misura detentiva attenuata”. Lorenzo Marone ci è stato negli Icam, “Istituti a custodia attenuata” creati per permettere alle detenute madri di tenere con sé i figli fino all’età massima di dieci anni. Ci è stato e ha portato con sé gli occhi di quelle madri, i sorrisi di quei figli, le voci, i dolori, gli sbagli, perfino le infinitesime felicità di tutti coloro che dentro le mura di quegli Istituti continuano la partita a scacchi contro l’emarginazione, la povertà, il bisogno, che alcuni chiamano vita.

Negli Icam ci sono madri che hanno una seconda occasione e figli che senza volerlo si sono già persi la prima. Sono luoghi di reclusione ma non di prigionia, insomma, come se le due cose potessero non coincidere. Hanno certamente un aspetto meno inquietante del carcere, ma di fatto lo sono: non permettono libere uscite e hanno sbarre alle finestre. Per i bambini che ci abitano, la casa è un luogo che non appartiene, la vita è la routine carceraria, il mondo è un perimetro chiuso che comunica con l’esterno solo per approssimazione.

Un fuori che è lì a portata di mano, ma che è praticamente inattingibile, a parte la scuola. Ma è proprio in quella intercapedine che si gioca l’avventura umana di queste donne che sono seguite da un supporto psicologico, hanno la possibilità di imparare un lavoro, di essere aiutate a prendersi cura dei loro figli in un momento delicatissimo in cui evidentemente non sono riuscite a prendersi cura nemmeno di se stesse. Eppure la notte, quando cala il buio e le porte vengono chiuse a chiave, quella ritorna prigione. E anche per questo le madri di notte non dormono mai.

Miriam, che è appena arrivata, non guarda in faccia a nessuno, si chiude in un ostinato mutismo che nemmeno la caparbia vitalità di suo figlio riesce a intaccare. Non vuole imparare, Miriam, non vuole capire che quello per lei può essere un nuovo inizio. Forse perché sa che a soffrire per lei sarà, presto o tardi, suo figlio.

Diego ha quasi dieci anni, è un po’ cicciottello ma attraversa la vita con il passo leggero di un’infanzia non ancora finita. Il gioco è dovunque, bisogna soltanto cercarlo. Si fa voler bene da tutti ed è quasi felice di essere venuto a nascondersi in questo rifugio dal mondo, lontano da quelli che nel suo rione lo trattavano male, lo prendevano in giro, avrebbero potuto ferirlo con le parole o con il coltello. È ancora un bambino ma nemmeno più tanto, e Miriam lo sa. Sa che quell’intervallo di finta libertà per loro dura poco, perché al compimento dei dieci anni lei finirà di scontare la pena nel carcere femminile e lui tornerà nel mondo reale - quello che ha mandato sua madre in galera - affidato a un parente, senza nessuno che possa vegliare su di lui.

Ma fino ad allora c’è tempo: tempo per cambiare, per imparare a essere qualcosa di diverso, per darsi una possibilità. Perfino Miriam dal chiuso della sua corazza si lascia afferrare da qualche lampo di luce e sulla sua bocca, così bella, fiorisce di tanto in tanto un sorriso. Si può scoprire l’amicizia, lì dentro, si può imparare a fidarsi, si può immaginare l’amore, si può capire che non ti ama davvero chi ti espone al pericolo, chi ti chiede di finire in galera per coprire le sue malefatte. Ci sono vite che cambiano e vite che restano scolpite nel dolore, quando questo diventa un macigno. Ci sono, tra i liberi e i reclusi, più similitudini che differenze.

Michele, la guardia, è forse più solo dei suoi detenuti. La notte, quando ritorna a casa è come se andasse in prigione. Greta, la psicologa, aveva in affido un bambino e lo ha perso. Ed è pure lei una madre che sfida la notte, anche a lei gli occhi rifiutano di chiudersi al pensiero di un bimbo che non rivedrà.

Lorenzo Marone accarezza le storie dei liberi e dei prigionieri senza far differenza tra loro, ascoltando ogni voce e andando a scoprire ogni taglio lasciato sull’anima, facendosi a ogni pagina la stessa silenziosa domanda: è giusto che un bambino innocente finisca in prigione? E allora dove è meglio che stia quel bambino: accanto a sua madre o lontano da lei?

Esiste nel nostro Paese una terza misura, sono le Case-famiglia protette: veri e propri appartamenti, inseriti nel tessuto urbano, senza sbarre né cancelli ma comunque controllati, da cui le madri possono uscire per accompagnare a scuola i figli e assisterli nel quotidiano. Un esperimento che, se esteso su tutto il territorio nazionale, potrebbe sollevare le madri dal dover scegliere per i loro figli tra due mali: la lontananza e la prigionia. E restituire loro il sonno perduto.