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di Giuseppe Salvaggiulo

La Stampa, 8 luglio 2023

La strategia è portare il caso Delmastro alla Consulta sollevando il conflitto di poteri. Come all’epoca dell’azione disciplinare dei giudici milanesi del caso Uss, le reazioni più imbarazzate all’escalation di Palazzo Chigi sono venute dai magistrati più conservatori. Le toghe della stessa corrente - Magistratura Indipendente - del sottosegretario Alfredo Mantovano. Del cui stile faticano a trovare traccia nella velina tonitruante uscita l’altra sera da Palazzo Chigi. “Meno proclami e più moderazione”, sibila il segretario della corrente, Angelo Piraino. Anche perché allo stesso gruppo appartengono i procuratori di Roma e Milano, Lo Voi e Viola. Il che dà la misura del clima che si è creato “berlusconizzando” il rapporto governo-magistratura.

Attorno alla premier si è maturata la convinzione che ci sia “un’orchestra rossa” a suonare la grancassa giudiziaria. Che quanto accaduto sinora sia solo un’ouverture. Che prima o poi scatterà l’ora fatidica dell’uscita di imbarazzanti intercettazioni. E che insomma i mesi verso le elezioni europee non saranno una cavalcata trionfale, ma un accidentato percorso di cecchinaggio giudiziario.

Rossi i pm milanesi, finiti sotto attacco della stampa di destra come ai bei tempi, benché uno di loro abbia recentemente archiviato un paio di querele contro gli stessi direttori di quei giornali. Rossa la gip romana che ha disposto l’imputazione coatta del sottosegretario Delmastro. Rossi i pm che tra Bologna e Firenze stanno tirando il filo nero che dagli Anni 70 si dispiega fino alle stragi mafiose del 1993.

Meglio giocare d’anticipo, dunque. Mettendo sul tavolo la pistola carica di una “soluzione finale” che passa dal controllo di Corte Costituzionale, Csm e commissioni parlamentari di inchiesta, dotate di poteri analoghi a quelli giudiziari, da agitare alla bisogna contro oppositori politici e pm sgraditi (vedi caso David Rossi).

L’escalation ha origini lontane. Giorgia Meloni, che i giornali li legge, sapeva dall’inizio di novembre che Daniela Santanchè era sotto indagine a Milano per i pasticci societari. E non aveva nascosto la sua irritazione alla ministra, per non esserne stata informata tempestivamente.

Quanto al caso romano, più che di complotto si potrebbe parlare di autocomplotto. Il pasticcio è stato creato tutto e solo dal duo Delmastro-Donzelli. La Procura, riluttante, s’è mossa solo dopo gli esposti di Verdi e Pd. Né avrebbe potuto non farlo. L’indagine è stata tutt’altro che pirotecnica: iscrizione non immediata, accertamenti discreti, nessun atto investigativo invasivo.

“Cinquanta e cinquanta”, rispondeva un paio di settimane fa un esponente governativo alla richiesta di un pronostico sull’esito. A dispetto della favorevole richiesta di archiviazione della Procura, lo stesso sottosegretario commentava circospetto: “Vediamo, vediamo”. Troppo sdrucciolevoli i parametri giuridici della vicenda: perimetro del segreto e consapevolezza di violarlo. La strategia difensiva di Delmastro era stata concordata con il sottosegretario Mantovano e supportata dall’avvocato penalista Giuseppe Valentino, a sua volta ex parlamentare e sottosegretario alla giustizia, presidente della fondazione Alleanza Nazionale e nei mesi scorsi candidato al Csm, prima di finire impallinato da fuoco amico per un’indagine di mafia. La strategia ricalcava la linea Maginot tracciata in Parlamento da Nordio: parafrasando Boskov, “segreto è quando ministro fischia”.

La Procura di Roma l’ha incenerita: non è il ministro, ma la legge, a stabilire che cosa è segreto. E tuttavia aveva salvato Delmastro, perché “poteva non sapere” dell’esistenza del segreto. Una richiesta di archiviazione figlia della riforma Cartabia, che richiede standard probatori più alti per rinviare a giudizio. Ma la giudice ha argomentato diversamente: come si può sostenere, a meno di considerarlo inadeguato al ruolo, che un avvocato penalista, sottosegretario alla giustizia con deleghe delicate, parlamentare da sei anni, presidente della giunta per le autorizzazioni, responsabile giustizia del partito, non sia in grado di apprezzare la segretezza di un documento della polizia penitenziaria?

Un gip che sconfessa un pm, esercitando un controllo terzo sul dominus dell’indagine, dovrebbe essere salutato come un magnifico spot liberale del codice Vassalli, cui Nordio non perde occasione di manifestare devozione. Invece ciò che il governo non sopporta è che la magistratura pretenda di stabilire i limiti di segretezza degli atti dello stesso governo. Tanto che qualificati esponenti di Fratelli d’Italia da principio hanno ipotizzato, anche in colloqui riservati e non del tutto amichevoli, di usare l’arma nucleare di un conflitto tra poteri davanti alla Corte Costituzionale.

Una Corte che già ora manifesta una forte spaccatura. Tanto che da tre mesi ritarda la decisione su due conflitti tra poteri (Senato contro Procura di Firenze sul caso Renzi; Camera contro Csm su caso Ferri) destinati a ridefinire i confini tra magistratura e politica. Ma che presto cambierà colore. Nei prossimi 18 mesi scadono 6 giudici su 15. Quattro li eleggerà il Parlamento. Cioè la destra. Che, con il non disinteressato aiutino di Renzi, gode di autosufficienza (fino al quorum costituzionale dei tre quinti) e può imporre condizioni draconiane all’opposizione.

Come accaduto al Csm. Dove ormai non si fanno prigionieri, come dimostra il colpo di maglio sulla Procura di Firenze. “S’è smarrito il senso istituzionale - confidava ai colleghi il procuratore reggente Luca Turco, dopo il voto irrituale e decisivo del vicepresidente Pinelli -. Il segnale non è solo per noi, ma per i magistrati più giovani. Chi indaga sui potenti paga un prezzo”. Ispezioni e azioni disciplinari ritorsive si sono già viste.

Se, come anche Nordio auspica, il caso Delmastro arriverà alla Consulta, troverà ad attenderlo a braccia aperte una nuova Corte. Con massicci innesti di giudici “patrioti”. Uno scenario polacco - controllo governativo su Csm e Corte Costituzionale, clava disciplinare sui giudici non allineati - sanzionato dall’Ue come contrario allo stato di diritto e ancora l’altro giorno definito “preoccupante”. Nelle stesse ore, la premier Meloni a Varsavia si diceva “ammirata” dal collega Morawiecki.