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di Angelo Panebianco

Corriere della Sera, 6 ottobre 2023

Il vero punto debole di questo governo, come di quasi tutti i governi che lo hanno preceduto, è l’assenza è di un accordo di fondo su quale debba essere la collocazione internazionale dell’Italia, il nostro rapporto con il resto del mondo.

È un effetto dello stato di necessità, della consapevolezza generale che non ci siano altre soluzioni. Ma a consentirlo c’è anche un certo persistente provincialismo italiano, la sottovalutazione, da parte dei più, dell’importanza del problema. Il vero punto debole di questo governo, il suo tallone d’Achille, così come dei governi che lo hanno preceduto (ma con una sola eccezione di cui poi dirò) è l’assenza è di un accordo di fondo, fra le sue principali componenti, su quale debba essere la collocazione internazionale dell’Italia, il nostro rapporto con il resto del mondo. Un disaccordo che emerge con forza mentre si avvicinano le prossime scadenze elettorali e cresce, per conseguenza, la conflittualità all’interno della coalizione di governo. È la situazione esattamente contraria a quella dei tempi della Guerra fredda: allora nessuno poteva fare parte dell’esecutivo se non ne condivideva le fondamentali scelte di campo (atlantismo, europeismo). Adesso, invece, liberi tutti: atlantisti e filo-putiniani, convinti sostenitori del sostegno all’Ucraina e malpancisti, europeisti (sia pure critici) e antieuropeisti, il diavolo e l’acqua santa (a voi la scelta su chi sia il diavolo e chi l’acqua santa) condividono le responsabilità di governo. Si noti che se l’esecutivo fosse in mano all’attuale opposizione le cose sarebbero più o meno le stesse: anche in quel caso, il diavolo e l’acqua santa governerebbero insieme.

C’è un solo esempio recente di governo con una posizione coerente, accettata da tutti i partner della coalizione, sulla collocazione internazionale dell’Italia: il Conte 1, l’alleanza fra 5 Stelle e Lega. Allora, e per tutto il tempo che quel governo durò, ci fu un’autentica “affinità elettiva” fra i componenti della coalizione. All’insegna dell’antioccidentalismo: l’Europa? Una disgrazia; la Nato? Un grave malanno da sopportare con rassegnazione; Russia e Cina? Nostri amici per la pelle.

Come è stato da più parti osservato c’è qualcosa in un certo senso di definitivo (e, sicuramente, di chiarificatore) nel fatto che proprio mentre la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si trovava a Lampedusa insieme alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il vice-premier Matteo Salvini fosse impegnato a confermare la sua alleanza con l’anti-europeista e filo-putiniana Marine Le Pen. In altri tempi, una così plateale divaricazione fra le posizioni del premier e quelle del suo vice avrebbe provocato una crisi di governo. Ma quei tempi sono passati. Ora la convivenza fra gli opposti è cosa normale, accettata. Per via di quello stato di necessità di cui sopra.

C’è certo, al momento, la determinazione di Giorgia Meloni nel difendere le ragioni dell’atlantismo e nel tenere la barra dritta sull’Ucraina. Così come sembra ferma, fin dall’insediamento del governo, la sua decisione (ovviamente dovuta all’accettazione del principio di realtà) di stare in Europa esattamente come ci stanno tutti gli altri governi europei: difendendo di volta in volta quello che, a ragione o a torto, ritiene essere l’interesse nazionale e cercando di strappare compromessi soddisfacenti (anche commettendo qualche passo falso: come l’inutile e controproducente polemica con il Commissario europeo Paolo Gentiloni). Però, per quanto grande possano essere l’energia e la determinazione del comandante, se i rematori cercano di dirottare la barca, la navigazione avverrà a zig zag e basta che cambi anche di poco la direzione del vento perché la barca si trovi fuori rotta.

Quando esiste un disaccordo di fondo sulla collocazione internazionale del Paese, la combinazione fra crescita della competitività all’interno della coalizione e l’eventuale aumento dell’incertezza sulle future condizioni internazionali, può avere effetti micidiali sulla stabilità del governo. Persino laddove, poniamo, amici e nemici di Zelensky sono abituati a sedere allo stesso tavolo e a scherzare più o meno amabilmente fra loro.

Dall’esito elettorale in Slovacchia alla forza di cui dispongono i trumpiani nel Congresso degli Stati Uniti e che si ripercuote sulla politica dell’Amministrazione Biden, la compattezza delle democrazie occidentali è a rischio (Maurizio Ferrera ha fatto bene il punto sull’argomento sul Corriere del 2 ottobre). Prima di tutto è a rischio il sostegno a Kiev. In queste condizioni, i nemici dell’intervento occidentale, diffusi in molti Paesi, e che in Italia sono assai forti e possono contare non solo su una parte dell’opposizione ma anche su molti amici nelle fila della maggioranza, potrebbero presto rialzare la testa. Destabilizzando governi. Da noi e non solo da noi.

Con tutte le sue fragilità l’Italia, fra le democrazie occidentali, è particolarmente esposta ai rischi generati da una forte crescita delle turbolenze internazionali. I suoi storici malanni (debito pubblico, inefficienza amministrativa, debolezza della politica, insuperabili divisioni regionali eccetera), la rendono potenzialmente indifesa di fronte alle minacce che possono derivare da cambiamenti negli equilibri delle forze internazionali.

È ormai quasi inutile ricordarlo (è solo acqua passata) ma un trentennio di sforzi (falliti) per dare alla democrazia italiana una maggiore solidità istituzionale, per darle istituzioni politiche forti in sostituzione dei partiti di un tempo, quelli che per decenni, dopo la fine della Guerra fredda, avevano tenuto in piedi la baracca, avevano l’obiettivo di attrezzarla per fronteggiare sfide e minacce. Le principali sfide e minacce, per qualunque democrazia, possono venire soprattutto dall’esterno, da cambiamenti sfavorevoli negli equilibri internazionali. Si pensava (una ingenuità? un’illusione?) che istituzioni forti avrebbero anche obbligato le varie componenti delle coalizioni di governo a convergere quanto meno sui “fondamentali” (collocazione internazionale in primis).

Non è andata così. Negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo, in un clima internazionale sfavorevole per la democrazia, tante democrazie europee crollarono come birilli (l’Italia fece da battistrada). Dato il clima politico vigente oggi nel Paese non sembra possibile ciò che invece sarebbe altamente auspicabile: che le varie teste pensanti della politica (presenti sia nella maggioranza che nell’opposizione) ma anche dell’economia e degli altri settori della classe dirigente, si siedano intorno a un tavolo. Non per confondere i ruoli. Ma allo scopo di capire come si fa a minimizzare i danni, a proteggere la nostra fragile democrazia.