di Teresa Cioffi
Corriere di Torino, 10 agosto 2024
Alessandro Venticinque e il suo film sulla rivolta di Alessandria. Nel carcere Don Soria di Alessandria tra il 9 e il 10 maggio 1974 scoppia una rivolta. Ci sono le urla, ci sono gli ostaggi e poi c’è il sangue. In quella che oggi è la Casa Circondariale Cantiello e Gaeta, tre detenuti armati prendono in ostaggio una ventina di persone tra agenti, altri detenuti, un medico, insegnanti e un’assistente sociale. Il tentativo è l’evasione. Seguono le trattative ma la tensione cresce e le forze dell’ordine entrano nell’istituto. Si arriva a una sparatoria e perdono la vita sette persone, cinque ostaggi e due rivoltosi. Una storia riportata alla luce da Alessandro Venticinque, regista del docu-film a puntate “Memoria Dimenticata”, prodotto da Lav Comunicazione della Diocesi di Alessandria. Un racconto che punta i riflettori sulle zone d’ombra della vicenda, che si concluse con la condanna dell’unico rivoltoso sopravvissuto: Everardo Levrero.
Ha incontrato Levrero?
“Sì, vive all’estero. Ci ha dato la sua versione dei fatti spiegando in che modo è stata preparata la rivolta, quando le armi sono entrate in carcere, cosa è successo in quei giorni. La grande domanda ancora oggi è: chi ha ucciso gli ostaggi? C’è chi continua a sostenere sia stato fuoco amico e chi ritiene siano stati colpi provenienti dai detenuti”.
Che effetto le fanno le notizie che arrivano dalle carceri?
“È paradossale che cinquant’anni dopo ci siano ancora proteste che assomigliano a quelle del 1974. Ovviamente speriamo che non si verifichino più esiti drammatici come quelli di Alessandria. Ma le motivazioni che spingono le rivolte sono le stesse”.
Non è cambiato nulla?
“Nulla. Le carceri vengono dimenticate. Le strutture sono fatiscenti, manca sia il personale che le risorse. Poi c’è il problema del sovraffollamento, che ad Alessandria rappresentava una criticità già negli anni Settanta. I dati sui suicidi in carcere, invece, ci parlano di una crescita del fenomeno”.
Differenze tra le rivolte di ieri e di oggi?
“I temi che spingono la rivolta sono gli stessi, ma c’è da dire che la popolazione carceraria è cambiata. Le storie di chi è in carcere oggi sono diverse, basta pensare al mix di nazionalità e culture. E questo aumenta le difficoltà di gestione all’interno degli istituti”.
I rivoltosi ora dialogano con l’esterno tramite Tiktok..
“Nel 1974 le voci della protesta venivano raccolte da gruppi e movimenti politici, soprattutto quelli extraparlamentari. Oggi, in modo illegale e di nascosto (ma non così tanto, evidentemente), si può comunicare tramite i social, anche da dentro. Questo, intanto, ci dice che in carcere a entrare molti oggetti, come i telefoni. I social permettono di far conoscere un pezzo di ciò che accade, ma non credo che questo possa portare benefici reali”.
Decreto Carceri: cosa ne pensa?
“L’impressione è che si voglia mettere un piccolo cerotto su una ferita profonda e sanguinante. Fino a che punto i provvedimenti del decreto serviranno ad alleggerire l’emergenza carcere? Il ministro della Giustizia parla di “umanizzazione carceraria”, la speranza è che si metta davvero al centro l’umanità del detenuto e di chi lavora in carcere. Altrimenti, sarebbe come allungare un’agonia”.
Perché ha deciso di raccontare la storia del Don Soria?
“Neanche io la conoscevo, nonostante sia nato e cresciuto ad Alessandria. È importante, invece, sapere cosa è avvenuto per fare pace con una tragedia che ha segnato profondamente la città. Inoltre penso sia un documento utile per avviare una riflessione sull’attualità: la situazione di ieri non è poi così diversa da quella di oggi”.