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di Giuliana Sgrena

Il Manifesto, 16 aprile 2023

L’associazione sportiva di Ghardimaou è stata sciolta dalla Lega calcio di Bizerta non per sanzione disciplinare o per decisioni della giustizia ma a causa dell’emigrazione clandestina di circa 70 giocatori. La fine di questo club storico, fondato nel 1922, per mancanza di giocatori è il segno tangibile di come la fuga dalla Tunisia stia investendo tutto il paese.

A partire sono soprattutto giovani che lasciano interi quartieri di città come Kairouan o Gafsa svuotati di una generazione, da un giorno all’altro. Partono rischiando la propria vita con il miraggio di una vita migliore in Italia o in Europa. Dalle coste tunisine partono disoccupati, minatori o giocatori di calcio. Nemmeno i naufragi con decine di morti riescono a fermare questa evasione di massa alimentata anche dai profughi provenienti dall’area sub-sahariana. Non tutti i tunisini che lasciano il paese ricorrono a mezzi di fortuna: migliaia di medici, ingegneri, giornalisti, architetti lo fanno con un regolare visto.

I tunisini non credono nel futuro del loro paese e soprattutto nel presidente Kais Saied che lo ha portato sull’orlo della catastrofe. Come può pensare il governo italiano di fermare questa ondata migratoria con un fantomatico “piano Mattei” per l’Africa che conta solo sui soldi del Fondo monetario internazionale tanto da indurre il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani a proporre all’organismo di iniziare lo stanziamento di una tranche dei fondi senza pretendere dal governo tunisino il rispetto delle condizioni legate alle riforme.

“Le riforme seguiranno”, ha detto il ministro degli esteri tunisino Nabil Ammar in visita a Roma il 13 aprile, mentre il presidente tunisino, lo scorso 6 aprile, aveva annunciato di non accettare i diktat del Fmi. Il prestito alla Tunisia di 1,9 miliardi di dollari, di cui si parla dallo scorso ottobre, è condizionato da un piano di riforme per la ristrutturazione di oltre cento imprese pubbliche pesantemente indebitate e dal taglio delle sovvenzioni all’energia e ad alcuni beni di prima necessità, molti dei quali sono diventati introvabili.

Persino l’acqua è razionata a causa della siccità. Il rifiuto delle condizioni poste dal Fmi non è motivato solo dal rifiuto - sostenuto da alcuni consiglieri del presidente - di un sistema di regole imposte dall’occidente, ma dipende anche dai timori che un taglio delle sovvenzioni potrebbe provocare il ripetersi di quella “rivolta del pane” scatenata contro Burghiba nel 1980 quando aveva tagliano le sovvenzioni alle derrate alimentari. Contro la ristrutturazione delle imprese pubbliche invece si è espresso il sindacato che teme la loro privatizzazione. Sebbene non ci sia stata ancora la rinuncia formale al prestito Fmi e il governo tunisino continui a trattare, i tempi stringono: la Tunisia è indebitata per circa l’80 per cento del Pil. La possibilità ventilata dal presidente di trovare una soluzione recuperando i soldi sottratti al governo dalla corruzione dei tempi di Ben Ali, che ammonterebbero a circa 13 miliardi di dinari (l’equivalente di 4 miliardi di euro), non appare praticabile.

Alla Tunisia sull’orlo della bancarotta restano poche alternative: la possibilità di prestiti bilaterali o la scelta perorata dall’entourage del presidente di un avvicinamento ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). La prima, che troverebbe sicuramente il favore dell’Algeria (che ha già proferito offerte), rischia di rendere la Tunisia troppo dipendente dal paese vicino. Per quanto riguarda invece i Brics, i timori riguardano le conseguenze che potrebbero avere forti investimenti della Cina, già ben posizionata in tutta l’Africa.

L’Italia segue da vicino la situazione della Tunisia perché teme un ulteriore aumento degli arrivi di profughi, ma la sua politica di contenimento se non di blocco, tante volte sbandierato da Meloni e Salvini, non ha possibilità di realizzarsi. Il sostegno al regime autoritario e xenofobo di Kais Saied - condannato anche dal Parlamento europeo - è cinico e spietato. E la presidente Giorgia Meloni che sfrutta la memoria di Enrico Mattei, il cui operato è incompatibile con l’ideologia della premier, e si reca in Etiopia, dove si fa fotografare in stile coloniale abbracciando bambini neri senza dire una parola sull’eredità nefasta del generale Graziani, mostra solo la sua spregiudicatezza nell’approfittare delle difficoltà di paesi in crisi solo per realizzare i propri interessi.