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di Paolo Ferrua*

Il Dubbio, 29 agosto 2024

È la Consulta ad aver legittimato il prevalere dell’interpretazione: strappo che si somma alla rivolta delle toghe contro il divorzio giudici-pm e alle torsioni della riforma Cartabia. Legislazione sempre più “subordinata” al diritto vivente generato dalla giurisprudenza: il primo di tre gravi vulnus aperti nel sistema penale.

1. Vi sono due problemi la cui risoluzione, a mio avviso, è condizione necessaria perché l’amministrazione della giustizia penale esca dalla crisi in cui oggi versa. Il primo è quello dei giudici- legislatori, espressione con la quale alludo alle decisioni che superano la cornice dei significati ragionevolmente attribuibili al testo della legge; in altri termini le decisioni che, sotto l’alibi della insopprimibile interpretazione, si risolvono in realtà nella creazione di una nuova disposizione (giustamente dette sentenze “creative”). È un fenomeno ampiamente diffuso, la cui responsabilità risale in larga misura a due infelici sentenze della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007), le quali hanno affermato il carattere vincolante delle interpretazioni espresse sul testo della Convenzione europea dai giudici di Strasburgo. Quelle sentenze, pur prive in tale parte di efficacia vincolante (trattandosi di affermazioni incidentali, formulate solo nella motivazione e non nel dispositivo), hanno gravemente contraddetto due fondamentali principi del nostro ordinamento giuridico.

Anzitutto, la soggezione del giudice alla sola legge, costituzionalmente garantita dall’articolo 101 comma 2 Cost.; è evidente che il principio si vanifica se il giudice è vincolato non tanto alla legge, quanto all’interpretazione che di quel testo ha dato un diverso giudice, chiunque esso sia, sovranazionale o nazionale. In secondo luogo, la distinzione logico- giuridica tra dispositivo e motivazione: il primo senza dubbio vincolante, non essendo il dispositivo null’altro che un comando; la seconda puramente persuasiva, costituendo un tipico esercizio di ragione. Convertire un esercizio di ragione in un comando è il grave abuso epistemologico, purtroppo imputabile alla Corte costituzionale.

Lo sconvolgente risultato è stata una progressiva e irreversibile svalutazione dell’autorità della legge: definire “vincolante” l’interpretazione è il primo passo per screditare la legge (sia nazionale sia sovranazionale), a tutto vantaggio di un esorbitante potere “creativo” dei giudici. Si è così determinato un progressivo distacco del “diritto vivente”, di origine giurisprudenziale, dal “diritto vigente”, ossia quello legislativo: in una grottesca inversione delle due sfere, oggi è il diritto vigente ad inseguire il diritto vivente, a tradurre in legge le interpretazioni “creative” della giurisprudenza. Né ci si può meravigliare se altre giurisdizioni superiori reclamano il privilegio dell’interpretazione vincolante, a cominciare dalla Corte di cassazione. Un embrionale passo in questa direzione è il nuovo testo dell’articolo 618 c. p. p., relativo ad una parziale efficacia vincolante del principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite della Cassazione.

Il compito della Corte costituzionale non è di dettare regole sul valore delle interpretazioni giurisprudenziali e nemmeno quello di proporre riforme ritenute appropriate al nostro ordinamento (come, ad esempio, è avvenuto con la sentenza n. 132 del 2019 che, senza rilevare alcun contrasto di costituzionalità, ha di propria iniziativa suggerito al legislatore di ampliare le deroghe all’oralità e all’immediatezza), ma quello tecnico- giuridico di verificare se una legge ordinaria, della cui legittimità si dubita, sia o no conforme ai precetti costituzionali; e a tal fine, di certo, non aiuta il fatto che la nomina dei giudici costituzionali, più che sulla base di criteri schiettamente meritocratici, avvenga spesso attraverso contrattazioni tra i partiti o tra le correnti della magistratura, più inclini a tenere conto dell’orientamento politico- ideologico dei candidati che non della loro competenza giuridica.

2. Il secondo problema è quello dell’atteggiamento della magistratura di fronte alla prospettiva di separazione delle carriere. Che la magistratura sia contraria alla riforma è del tutto legittimo, dato che la riguarda direttamente. Così come appare comprensibile il timore più volte espresso che la separazione delle carriere possa preludere a controlli del potere politico sul pubblico ministero o comunque ad una differenziazione tra giudici e pubblici ministeri in punto di indipendenza esterna. Il ministro assicura che l’indipendenza del pubblico ministero resterà assolutamente ferma. Ma, non essendo il futuro ipotecabile, quel collegamento tra potere politico e pubblico ministero, presente in diversi Stati democratici, potrebbe realizzarsi presto o tardi anche nel nostro paese; e - lo si condivida o no - se attuato con legge costituzionale, difficilmente potrebbe considerarsi un golpe.

Quello che, invece, appare dal mio punto di vista inopportuno è che un consistente settore della magistratura reagisca alla temuta prospettiva attaccando i due cardini del processo accusatorio: la funzione del pubblico ministero e la centralità del dibattimento. Il primo attacco consiste nell’affermare la natura di parte- imparziale del pubblico ministero, accompagnandola da catastrofiche previsioni sulla veste di implacabile accusatore che assumerebbe in un regime di separazione delle carriere. Discorso fuorviante perché il modello accusatorio regge sulla netta separazione di poteri tra parte e giudice, per effetto della quale chi non sia “giudice” è per logica esclusione “parte”. Il processo è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro, dove ogni alterazione di funzioni in un singolo soggetto si ripercuote inevitabilmente sugli altri. Se il pubblico ministero abbandona la sua veste di “parte” per assumere quella di para- giudice, è altissimo il rischio che sia il giudice a convertirsi in accusatore, per rimediare al vuoto di funzione: così, d’altronde, avveniva nel vecchio processo di pretura dove alla frequente latitanza del pubblico ministero suppliva l’impulso demiurgico del giudice.

L’idea che la richiesta di archiviazione o di proscioglimento presentata dal pubblico ministero sia il segno della sua “imparzialità” deriva da una terribile confusione tra il piano delle funzioni e quello delle azioni (il cosiddetto piano “attanziale”). Come ogni organo pubblico, l’accusatore è soggetto alla legge; e poiché questa subordina l’esercizio dell’azione penale alla presenza di elementi idonei a sostenerla, e la condanna alla prova oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza, il pubblico ministero è tenuto a chiedere l’archiviazione o il proscioglimento in assenza dei requisiti appena menzionati. Se di “imparzialità” per il pubblico ministero si vuol parlare, è solo nel senso del divieto di praticare discriminazioni tra i soggetti nei cui confronti si sviluppa la sua azione.

3. Un altro attacco al modello accusatorio si è sviluppato con la partecipazione dei più autorevoli esponenti della magistratura come presidenti di commissione nella riforma “Cartabia”. Il modello accusatorio esige un’indagine fluida e poco formalizzata, al fine di realizzare due importanti condizioni: il rapido passaggio alla fase del dibattimento, essenziale per un uso contenuto delle misure cautelari, e l’irrilevanza probatoria degli atti svolti nella fase preliminare. La riforma Cartabia percorre le vie retrograde del garantismo inquisitorio. L’indagine preliminare viene appesantita da finestre giurisdizionali, da controlli del giudice e da una nutrita serie di termini, peraltro puramente ordinatori. Il messaggio che veicola questa metamorfosi dell’indagine preliminare è piuttosto trasparente: mostrare come la separazione delle carriere non sia necessaria, in un sistema dove il pubblico ministero è sistematicamente controllato nei suoi passi dal giudice, il quale neutralizza ogni eccesso accusatorio, convertendolo per l’appunto in una parte- imparziale. Peccato che tutto ciò si traduca nell’affossamento di quel poco che sopravvive del modello accusatorio. L’indagine preliminare diventa l’epicentro del processo, crescono le occasioni di ricorso alle misure cautelari, l’autonomia del dibattimento si riduce al crescere del formalismo delle indagini, la memoria dei testimoni declina. Il processo inquisitorial-garantito è alle porte.

*Giurista